Uno dei più importanti studiosi di strategia del Novecento, Colin Gray, ha scritto che la geopolitica si occupa di ciò che è “importante e durevole, in opposizione a ciò che è futile e transitorio”. La crisi in corso in Medio Oriente sta riportando alla luce alcuni importanti e durevoli fenomeni della politica internazionale che il futile e transitorio accecamento ideologico ha tenuto a lungo nascosti.
Lungo la loro storia, Russia e Turchia si sono fatte la guerra almeno dodici volte. La prima fu nel 1569, per la conquista del khanato di Astrakhan. Nel Settecento e nell’Ottocento, una guerra russo-turca scoppiò in media ogni venticinque anni e, nel 1877, i russi furono ad un passo dal conquistare il loro storico obiettivo: Costantinopoli, chiamata anche, in russo, Zarigrad, la città dello zar.
Per la Russia, il controllo di Costantinopoli significa creare una linea di continuità tra il mar Nero e il Mediterraneo; in questa luce, il legame tra Crimea e Siria appare più evidente. Il corridoio del Bosforo e dei Dardanelli consentirebbe alla Russia di disporre di un’apertura su un mare navigabile dodici mesi su dodici, e cominciare così una nuova e inedita fase della sua pur lunga storia. È proprio l’assenza di sbocchi su mari navigabili tutto l’anno, infatti, che ha impedito alla Russia di diventare una vera superpotenza, frenando le sue attività commerciali e compromettendo le sue attività militari.
Sembra fuori luogo, oggi, parlare della volontà russa di diventare, finalmente e per la prima volta, una superpotenza. Le condizioni sembrano mancare tutte e il prezzo del petrolio, la crisi del rublo e le sanzioni internazionali non migliorano certo le sue prospettive a breve e medio termine. Tuttavia – per la loro storia e le loro tradizioni – le classi dirigenti russe tendono a ragionare nei termini di ciò che è “importante e durevole”. Hanno, cioè, una visione geopolitica, che molti dei suoi competitori non hanno, persi, il più delle volte, dietro a preoccupazioni futili e transitorie.
Tutto questo non vuol dire che una tredicesima guerra russo-turca sia alle viste, né che Putin abbia in mente di conquistare Istanbul. Vuol dire che, in ultima istanza, quando si arriva alle questioni importanti e durevoli, gli interessi della Russia e quelli della Turchia collidono.
Ma non è questo il solo aspetto importante e durevole che la guerra in Medio Oriente ha riportato a galla. Un altro è la rivalità geopolitica tra Turchia e Iran. In termini di longue durée, questa rivalità è molto più antica di quella russo-turca, perché affonda le sue radici nello storico antagonismo tra persiani e greci, di cui i turchi ottomani furono gli eredi geopolitici. La più remota di quelle guerre risale al V secolo a.C., cioè più di duemila anni prima del primo scontro tra turchi e russi. Il nocciolo del conflitto tra mondo greco-turco e mondo persiano è la Mesopotamia: la penultima tappa di quel confronto fu la conquista della piana del Tigri e dell’Eufrate da parte di Solimano il Magnifico nel XVI secolo, che segnò l’apogeo dell’impero ottomano e l’inizio del declino di quello persiano safavide. L’ultima tappa è il ritorno dell’Iran in Mesopotamia, dopo la destituzione di Saddam Hussein e l’arrivo al potere delle fazioni pro-iraniane a Baghdad.
Anche le classi dirigenti turche e iraniane hanno una visione geopolitica delle relazioni internazionali. Lo straordinario successo economico e la rapida democratizzazione del paese dei primi dieci anni del nuovo secolo avevano lanciato Ankara su una via che fu presto definita “neo-ottomana”: che puntava cioè a ristabilire le antiche connessioni balcaniche, nordafricane e, soprattutto, mediorientali del vecchio impero scomparso quasi cento anni fa. E l’Iran – dopo il pietoso fallimento del progetto panislamista di Khomeini – si è orientato di nuovo verso la sua tradizionale area di interesse, la Mesopotamia e la Grande Siria, grazie anche e soprattutto all’intervento americano del 2003. Non ha del tutto torto chi afferma che la classe dirigente post-khomeinista (e post-Ahmadinejad) sia più persiana che musulmana.
L’Unione europea, invece, non ha e non può avere una visione geopolitica delle sue relazioni esterne: perché il suo retroterra storico non è sufficiente e perché non ha ancora definito un interesse continentale comune. Oggi l’Unione europea è ancora fondata su ventotto interessi nazionali diversi e spesso divergenti, e conta molto più di ventotto tradizioni geopolitiche diverse e spesso divergenti. Così accade che la cancelliera tedesca vada nella capitale turca a biasimare i russi, e che a Parigi si sentano sempre più numerose le voci favorevoli all’indispensabile ruolo della Russia per la soluzione della crisi siriana. Vista la volubilità delle loro relazioni storiche con la Russia, domani Berlino e Parigi si scambieranno probabilmente ancora una volta le sedie; ma le parole udite in questi giorni rievocano, in lontananza, gli schieramenti del 1914.
Ma la geopolitica non è una fatalità. Il fatto che la volontà della Russia, della Turchia e dell’Iran sia dettata dalla loro visione geopolitica non impedisce loro di lastricarsi, invece, la strada per l’inferno. Una cosa è sapere dove si vuole andare, un’altra è saperci andare. Una visione geopolitica lascia comunque aperta, a tutti, la possibilità di prendere delle decisioni disastrosamente sbagliate.