“Proprio come avviene per l’11 settembre, ogni americano ricorda dove si trovava quel 22 novembre del 1963. Io ero in Italia. Mi arrivò una telefonata da Montecitorio: ha già sentito la sua ambasciata? Chiesi perché avrei dovuto sentirla e furono loro a dirmi che avevano ammazzato Kennedy”. Ha esordito così Joseph LaPalombara, professore emerito alla Yale University, nel suo intervento mercoledì 26 febbraio, per la presentazione dell’edizione inglese del libro di Stefano Vaccara, direttore de La VOCE di NY, alla Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University .
Carlos Marcello, the Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books, 2013, l’edizione italiana Carlos Marcello: il boss che odiava i Kennedy, Editori Riuniti) nasce dall’imperativo categorico di dare una risposta a uno degli eventi più traumatici della storia dell’America contemporanea. E una risposta diversa da quella fornita dalla commissione Warren che ha voluto chiudere la vicenda con l’insoddisfacente spiegazione dell’assassino solitario.
“Il paese che amo e in cui ho scelto di far crescere i miei figli non ha ottenuto la verità – ha detto Stefano Vaccara – Chi aveva il dovere di fornire questa verità, in primis i media, non ha fatto il suo dovere. Ed è per questo che ho scritto questo libro, perché l’America merita una verità”.
La verità di Vaccara potrebbe non essere facile da digerire: c’è la mafia dietro l’assassinio del presidente. E precisamente c’è Carlos Marcello, all’anagrafe Calogero Minacori, siciliano nato a Tunisi immigrato da bambino a New Orleans.
Ma cosa lega il boss che negli anni ’50 e ’60 controllava il Sud degli Stati Uniti al presidente Kennedy? Per spiegare e risolvere un delitto, un detective cerca movente, mezzi e opportunità, spiega Vaccara nel suo libro. Nel caso dei delitti di mafia, devono esserci altri due elementi: la possibilità di ricattare chiunque voglia ostacolare il piano criminale e un contesto politico favorevole che possa beneficiare dell’eliminazione del target stabilito.
A Carlos Marcello il movente non mancava. Il boss aveva delle ottime ragioni per volersi liberare di John Kennedy e sopratutto di suo fratello Robert che, già dal 1959, quando erano parte della commissione che indagava sui rapporti tra sindacati e criminalità organizzata, avevano intuito l’enorme potere di Marcello ed erano decisi a distruggerlo, tanto da averlo fatto deportare in Guatemala.
Ovvio, un buon movente non è tutto e il libro non sostiene certo che JFK e Robert Kennedy siano stati ammazzati per pura vendetta. Ma Stefano Vaccara mette insieme tanti altri pezzi del puzzle per sottolineare quanto sia anomalo (per dirla con un eufemismo) che il nome di Marcello non sia mai venuto fuori nelle indagini. E se quel nome non venne fuori, evidentemente qualcuno voleva che le cose andassero così. A Marcello non era sfuggita l’opportunità di creare un clima politico favorevole al delitto: la necessità, di fatto, di allearsi con chi aveva interesse che JFK uscisse di scena.
“Non ho trovato la famosa smoking gun, non ho fatto uno scoop, mi sono limitato a mettere insieme dei pezzi, a collegare degli elementi che erano già disponibili e a chiedermi perché, nonostante quei pezzi portino con evidenza a Marcello e a New Orleans, nelle indagini invece il nome di Marcello non venga mai fuori. Gli elementi che portano a Marcello sono troppi per credere che si tratti di coincidenze” ha detto Vaccara mercoledì sera. Ad esempio non è difficile dimostrare che sia Lee Harvey Oswald che Jack Ruby erano vicini alla famiglia Marcello, ha spiegato Vaccara.
“Per quanto incredibile possa sembrare, la spiegazione fornita da Vaccara nel suo libro è molto più credibile di quella letteralmente incredibile dell’assassino solitario” ha detto George De Stefano, giornalista, scrittore ed esperto di mafia, durante la presentazione del libro. E a sostegno del fatto che il coinvolgimento della mafia nell’assassinio Kennedy non sia poi una lettura tanto fantasiosa, De Stefano ha ricordato che fu un ex procuratore di New Orleans con origini siciliane a dirgli che al tempo, a New Orleans stessa, negli ambienti italiani c’era la sensazione che cosa nostra potesse essere dietro quel delitto. “L’ex procuratore mi raccontò che suo padre era sempre stato alla larga da Marcello che disprezzava e considerava la causa di tutti i problemi degli italiani in Louisiana. E mi disse che il giorno che ammazzarono Kennedy suo padre, guardando le tragiche notizie in TV, commentò: scommetto che quei bastardi hanno qualcosa a che fare con questa storia”.
Joseph LaPalombara ha invece raccontato di un suo incontro con l’avvocato di Jimmy Hoffa, il sindacalista colluso con la mafia che si ritrovò più volte coinvolto in indagini legate alla criminalità organizzata. “Ricordo che mi descrisse con rabbia l’accanimento di Robert Kennedy nei confronti del suo cliente. La tenacia, al limite della legalità (tanto che in quel caso la stessa Costituzione degli Stati Uniti non venne rispettata), con cui gli stavano dietro. Ripensandoci ora mi viene in mente che, se quello stesso accanimento era stato usato nei confronti di Marcello, non mi sorprenderebbe che il boss abbia voluto decidere di risolvere il problema a modo suo”.
Delitto di mafia, quindi, ma non ci può essere mafia senza politica. “Qualcuno ha tratto vantaggio dalla copertura messa su dalla commissione Warren e dalle spiegazioni ufficiali – ha continuato Stefano Vaccara – E se siamo d’accordo che di copertura si sia trattato, c’è da dire che chi organizza la copertura non è necessariamente lo stesso soggetto che è responsabile del delitto. Non credo che Marcello agì da solo. Ma non so chi abbia beneficiato del delitto da lui organizzato, posso avere qualche idea, ma non ho prove. Tuttavia è ovvio che a qualcuno quel delitto fece comodo e varrebbe la pena riaprire la questione”. Interessi politici e interessi criminali si unirono, come da copione, allo scopo di eliminare chi stava scomodo a entrambe le parti. Arrivare a dare un nome e un volto a quegli interessi è compito delle autorità. Ma, come ha detto mercoledì sera Stefano Albertini, direttore della Casa Italiana NYU, “Il vero merito di questo libro è che non dà facili risposte ma ci stimola a farci delle domande”.