Quante volte vediamo scorrere sulla nostra “home” di Facebook immagini e video che ci sconvolgono e che avremmo preferito non vedere. Video registrati anche in situazioni impensabili e mi sono domandato, tante volte, come la gente possa filmare istanti drammatici.
Cosa spinge centinaia di persone in tutto il mondo a praticare il dark tourism? Il dark tourism è un turismo particolare: le persone si recano in quei luoghi dove sono avvenuti terribili omicidi e orrendi crimini. Posti che, diventati il simbolo della cattiveria umana, si trasformano in mete turistiche.
Non è semplice riuscire a spiegare il perché di questo fenomeno. Oggi, è necessario capire il meccanismo che sociologicamente si ricollega a tutte le teorie del rapporto che esiste tra scena e retroscena. Teorie più volte diffuse da Goffman che fanno parte dello studio di sociologia.
È importante partire da questo e c’è un libro molto bello, scritto da Antonia Cava, una mia collega dell’Università di Messina con cui ho avuto il piacere di pubblicare il volume “Social Gossip”, che si intitola: “Noir TV. La cronaca nera diventa format televisivo” ed un testo che affronta proprio questo argomento.
Situazioni paradossali e narrazioni di cronaca nera che negli ultimi anni arrivano nelle nostre case, attraverso la televisione o i computer. Purtroppo, i crimini efferati sono aumentati in modo esponenziale.
Basti pensare al delitto di Avetrana. Sono passati 12 anni da quando mamma Concetta suonava al citofono dei carabinieri, come ha scritto l’avvocato Nicodemo Gentile, per denunciare la scomparsa di sua figlia. In questi 12 anni quante ore di televisione sono state prodotte e quante persone sono andate a vedere quel luogo?. Moltissime. Non si conta più il numero di turisti che sono stati nel luogo in cui è stato ritrovato il cadavere di Sara e che hanno voluto osservare da vicino la casa dei Misseri. La zia Cosima e la cugina Sabrina, ritenute responsabili dell’omicidio, sono state condannate all’ergastolo in via definitiva e ancora ne discutiamo.
Una sorta di format televisivo dell’orrore che ha spinto le persone a cercare quel luogo per riuscire a comprendere meglio tutto quello che la televisione e i giornali avevano raccontato in tantissimi giorni.
La collega Cava ha spiegato come paradossalmente la mancanza di un colpevole susciti nelle persone maggiore interesse e voglia di avvicinarsi a quei luoghi.
Non possiamo dimenticare: il delitto di Cogne, di Perugia, di Garlasco e i tanti casi di femminicidio, avvenuti anche nella nostra Sicilia, si sono trasformati in nuove destinazioni da raggiungere per fare dark tourism.
È molto difficile giudicare la mente umana in tutte le sue espressioni. Inoltre, più riusciamo a far entrare tutti nella scena del crimine e più il retroscena diventa ancora più interessante.
In questo processo di continua “vetrinizzazione” anche la morte assume un significato diverso e pone in evidenza due criteri: l’istantaneità e la spettacolarità dell’evento. Servizi funebri trasformati in eventi sui social o i siti dedicati ai messaggi di cordoglio. Non si riesce ad interpretare correttamente il limite tra la sfera pubblica e privata, perché in effetti non esiste quasi più.
Il prezzo da pagare è il continuo esporre i propri sentimenti e la propria identità al continuo giudizio degli altri. La vita privata viene veicolata dai mezzi di comunicazione, soprattutto dalle nuove tecnologie (internet, social network, smartphone, webcam), con le quali lo spazio in vetrina diventa virtuale e privo di controllo. Oggi, l’ aspetto pubblico e privato della propria vita deve ottenere come unico obiettivo quello di forgiare la propria identità attraverso prestazioni spettacolari solo perché il metterle in scena è dettato dalla moda, dalla tendenza, dalla circostanza, a prescindere dal reale interesse.
I mezzi di comunicazione, poi, accrescono e non filtrano i fatti di cronaca. Riusciamo a parlare del un suicidio di un uomo con estrema facilità come non fosse importante o come se gli esseri umani fossero numeri da calcolare. Una sofferenza che si può commercializzare senza alcuna importanza. Quando ero un giovane cronista, tantissimi anni fa, era addirittura una regola etica quella di non scrivere articoli sui suicidi. Adesso, tranquillamente i media parlano di suicidi con un’enorme quantità di dettagli. Un suicidio postato sui social scatena i commenti degli utenti e alcuni possono essere anche estremamente spietati.
Il funerale viene mostrato anche sulle piattaforme online per fissare gli istanti del momento. Quindi, lo spettatore non si sente a disagio, ma si sente partecipe di un’esperienza mediatica, costruita ad arte. Il principio dovrebbe essere quello di preservare la dignità della persona nella malattia e nella morte, ma sempre più spesso questo non avviene. La mancanza di rispetto indica quanto grave sia la crisi valoriale della nostra società.
Purtroppo, diventa complicato riuscire a spiegare le motivazioni, dal punto di vista sociologico, ma la ricerca ci dice che c’è una ricostruzione pregressa che viene fatta nei media che poi spinge le persone a recarsi in quei territori e ad essere pronte ad un protagonismo spinto solo per mostrare a tutti le località dell’orrore.