Bianco o rosso? Fermo o frizzante? De gustibus! Il panorama dei vini italiani permette viaggi lunghi e sempre variegati. Se si deve fare un nome per tutti, che valga come riconoscimento immediato a livello mondiale, non c’è dubbio che sia quello del Prosecco, ma non da meno sono anche altre bollicine tricolori, alcune molto note, altre da scoprire, e quanto mai piacevolmente.
Uno degli spumanti più interessanti “nascosti” fra colli e valli del Bel Paese si trova in una circoscritta area a cavallo tra provincia veronese e provincia vicentina: il Durello della Lessinia, “Lessini Durello” secondo d.o.c.; va precisato che la definizione esatta per l’equivalente italiano di uno champagne o di un cava è, appunto, “spumante”, ad indicare non la tipologia di uve utilizzate, bensì la produzione di spuma all’apertura. Vino frizzante è altra cosa ancora, in quanto i parametri di sovrappressione sono minori.
Il Durello si ricava dalla Durella, vitigno antico e autoctono dei monti Lessini, dalle uve dorate di sapore tipicamente acidulo, con buccia spessa – da qui il nome – e ricca di tannini; la vite affonda con familiarità le sue radici nel terreno della Lessinia, riflettendone la mineralità vulcanica peculiare. Se ne trova menzione già a partire dal 1200, col nome di Durasena, contrazione dal latino durus acinus; Petrarca, in un suo scritto, cita uve duracine coltivate ad Arquà (Padova); negli Statuti di Vicenza del 1264 si legge dell’uva Duriciana e in quelli di Costozza del 1292 della Durasena. Altri documenti testimoniano la coltivazione della Durella in Lessinia orientale a partire dal 1500. L’uva Durasena o Duron si trova nel catalogo varietale delle uve veronesi di Ciro Pollini (1824) e lo scrittore e naturalista mantovano Giuseppe Acerbi descrive nel 1825 una Durasena della Valle Policella presente nel veronese e simile al “Duron” della valle d’Illasi: «dà poco mosto, ma vino eletto. L’uva è ottima a serbarsi pel verno e la primavera».

Matteo Fongaro è (con Giovanni Tessari) vicepresidente del Consorzio di tutela Lessini Durello (presieduto da Alberto Marchisio), nonché titolare, col fratello Alessandro, della Fongaro Spumanti, una delle aziende più rappresentative, con una bella storia di famiglia che risale al 1975 e vede il nonno Guerrino tornare nella natìa Lessinia dopo un’assenza di quarant’anni, trascorsi nel bergamasco, ed intraprendere, all’età di 65 anni, una strada tutta nuova. Perché? «Una missione: l’esperienza fatta trattando vino – imbottigliando e commercializzando – gli fece capire che dal nostro vitigno si poteva ricavare un vino speciale e ci riuscì, passando poi il testimone a mio padre che, a sua volta, l’ha consegnato a mio fratello e me». Guerrino Fongaro era consapevole di lavorare al di fuori di qualsiasi logica di mercato, ma fu spinto dalla voglia sia di dimostrare che un diverso tipo di agricoltura era possibile, sia di creare qualcosa di unico. Ebbe la conferma che, alla fine, l’amore per la propria terra ripaga sempre.
Le scelte operative furono giudicate da molti bizzarre, inizialmente: vigneti di nuova concezione, impianti di irrigazione a goccia quando all’epoca se ne vedevano solo in Israele, reti anti-grandine per proteggere i raccolti. Un’agricoltura che ripudiava la logica delle grandi produzioni e l’utilizzo di prodotti chimici di sintesi e dava fiducia incondizionata ad un vitigno autoctono che nessuno aveva finora pensato di utilizzare; grazie anche alle tecniche di spumantizzazione apprese dai maestri della Franciacorta, Guerrino puntò tutto sulla realizzazione di spumanti metodo classico, a lunga fermentazione in bottiglia.
Gli spumanti Fongaro – una gamma di sei – sono tutti prodotti con metodo classico: una scelta individuale o condivisa dalle altre cantine del consorzio? «Alcune cantine usano anche il metodo charmat, quello del prosecco, per intenderci; noi siamo l’unica azienda che, invece, da sempre utilizza solo il metodo classico, perché particolarmente complementare alla Durella: è una lavorazione che si addice alla sua peculiare alta acidità naturale – che si traduce in una lunga durata del vino nel tempo – e la valorizza al massimo». Vero: stappata una magnum di 28 anni la sorpresa straordinaria è stata trovare praticamente intatta la bolla, piccola e preziosa, e il gusto leggermente alterato, ma con nota assolutamente gradevole e matura. Un affascinante vino dai “capelli bianchi”, testimone di classe.
Cosa distingue il Durello da altri spumanti? «Freschezza, pulizia, sapidità. Un vino cristallino al palato». E dunque, con cosa lo abbiniamo? «Pesce, prima opzione. Ma le varietà a più lunga fermentazione si sposano bene anche con la carne, gli spiedi ad esempio, proprio per la sua proprietà “sgrassante”, che permette di gustare ogni boccone nella pienezza del gusto».
Durello export? «Il mercato internazionale tendenzialmente vede protagonisti bianchi fermi e rossi. Se poi si parla di bollicine, è innegabile che i nomi di punta, per notorietà e vendite, siano prosecco e champagne. Come consorzio – che nel 2006 contava 6 cantine, ora 32 – ci stiamo muovendo per allargare la conoscenza del nostro prodotto, ma non pretendiamo di fare i fenomeni: siamo consapevoli da un lato della sua eccellenza, dall’altro anche della difficoltà di veicolarla su larga scala, su un panorama internazionale, come illustravo sopra, dominato da attori più grossi. Diciamo che cerchiamo di non fare il passo più lungo della gamba, ma comunque procediamo regolari e spediti».

Iniziative interessanti, che coniugano degustazioni di prodotti locali con la vocazione turistica internazionale di Verona ed il suo patrimonio artistico, hanno visto in scena anche il Durello; tra esse, “Hostaria-Il Festival del Vino e della Vendemmia di Verona”, organizzato dall’Associazione Culturale Hostaria in collaborazione con il Comune di Verona, che nell’edizione 2017 ha sposato il nostro vino col Monte veronese, formaggio con cui condivide la terra, e che replicherà anche quest’anno. «Il Durello – anticipa il direttore artistico, Leonardo Tarcisio Rebonato – ha sempre avuto grande attenzione a tutte le manifestazioni di Hostaria: l’anno scorso, tra le declinazioni, è stato organizzato uno speciale aperitivo sulla sommità della funicolare da poco ripristinata tra il centro e castel San Pietro, sopra il teatro romano. Ad oggi non sono ancora state definite le novità dell’edizione 2018, ma sicuramente il Durello farà ancora la parte del protagonista».
Fuori dalle mura cittadine è, ovviamente, suggerita una gita in Lessinia, ove, nel 1987, è stata delimitata la zona di produzione seguendo, in linea di massima, alcune tra le più suggestive strade della provincia di Verona e Vicenza. Il consorzio indica come punto ideale di partenza Montebello Vicentino, ben servito dall’autostrada A4 e dalla SS.11 sia per chi intende procedere verso Monteforte e la parte scaligera, sia per chi sceglie l’altra direzione, verso Montorso. Da Montecchio Maggiore, invece, si può intraprendere un percorso più breve, nel cuore del territorio, toccando i centri a più alta vocazione viticola e quindi abbinando ai temi architettonici e paesaggistici, anche approfondimenti sulle aziende e sui vigneti, per terminare nel sito dei fossili tra i più famosi al mondo, Bolca.
La vocazione vitivinicola veneta è millenaria: le prime tracce di tale coltivazione risalgono ai Paleoveneti o Etrusco-Retici (VII-V sec. a.C.), in particolare nel veronese, nel vicentino e nel padovano. Vinaccioli di sicura origine colturale sono stati ritrovati in un insediamento risalente al V sec. presso S. Pietro in Cariano (VR) e nel 1910 fu scoperta a Montebello (VI), in una villa romana del I-II sec. d.C., una grande tinaia contenente vinaccioli ben conservati.
La via Claudia Augusta fu realizzata nel I sec. d.C. per collegare Adriatico e Po con le pianure danubiane; pressoché unanime è il parere degli storici nell’indicare un unico tratto verso Nord da Tridentum (Trento), che prevedeva il transito attraverso il passo di Resia e il termine, attraverso la valle dell’Inn e di Lech, poco oltre Augusta Vindelicorum (Augsburg), in una località sul Danubio vicino all’odierna Donauwörth. A Tridentum, invece, salendo dalla pianura, giungevano due rami: uno dal villaggio di Hostilia (Ostiglia, presso Mantova), raggiungendo Tridentum via Verona (ove incrociava un’altra importantissima arteria, la via Postumia); l’altro partiva dal porto di Altinum (Altino) sul mare Adriatico e, passando dal municipio di Feltria (Feltre), arrivava a Tridentum lungo la Valsugana.
Indagini geografico-archeologiche a parte, dal punto di vista qui trattato è interessante rilevare come la via attraversi regioni di grandi vini ed il commercio relativo fosse già ben avviato al tempo: il museo romano di Augsburg conserva, tra i reperti, un famoso bassorilievo di un commerciante su un carro che trasporta una damigiana; nella sola provincia di Verona sono 48 oggi i comuni attraversati dalla strada imperiale.
L’impronta enologica veneta sul fronte letterario si legge nel “Il Roccolo Ditirambo”, un poemetto di Aureliano Acanti – anagramma di Valeriano Canati (Vicenza 1706 – 1787), accademico olimpico, sacerdote dell’ordine dei Teatini, letterato e poeta arcade – pubblicato nel 1754 a Venezia. E’ considerato uno dei libri fondamentali della storia dei vini italiani e, in particolare, per i vini veneti, accompagnando il lettore alla scoperta dei prodotti vinicoli vicentini di quell’epoca. Il volume si trova attualmente nella Biblioteca Internazionale “La Vigna” di Vicenza , la più importante al mondo per raccolta di testi di vitivinicoltura.