Prima i numeri e i bilanci, poi le marmellate siciliane e i grani antichi. Prima Roma e poi New York. C’è un prima e un dopo nella vita di Beatrice Ughi, fondatrice e presidente di Gustiamo, l’azienda con sede nel Bronx, a New York, che importa prodotti Italiani di qualità con un’attenzione ai produttori, al territorio, alla qualità delle materie prime. Romana ma di mamma napoletana e papà fiorentino, Beatrice lavora diversi anni nel mondo delle revisioni e bilanci. Una laurea in Economia e commercio e una carriera che inizia con una multinazionale a Roma. New York arriva inizialmente come trasferta per alcuni anni. Finisce per rimanerci: per amore e per lavoro.
Abbondanate le calcolatrici e i faldoni con i numeri e le tabelle, Beatrice comincia a studiare il cibo: viaggia, cucina, incontra i produttori. Oggi Gustiamo, che vende on line ma anche nei negozi gourmet e ristoranti in tutta l’America e il Canada, ha sempre in testa l’obiettivo di portare nelle case e nelle tavole degli americani l’eccellenza del made in Italy.
Pasta, olio, salsa di pomodori, i prodotti più venduti ma oggi anche i panettoni italiani e alcuni prodotti di nicchia. Sul futuro del cibo dice: “Sarebbe auspicabile un ritorno alla tradizione ma a parte alcuni eroi non vedo grandi speranze”.
Una laurea in economia e commercio e una carriera nell’ufficio revisione e bilanci di una multinazionale. Come nasce l’avventura nel mondo della gastronomia italiana con Gustiamo?
“Sono arrivata a New York perchè la multinazionale dove lavoravo a Roma mi ha chiesto se volevo trasferirmi per alcuni anni e seguire i clienti italiani in America. Mi occupavo di revisione e bilanci. Tutte cose che non avevano a che fare di certo con il mondo del cibo. Poi nel 1999 sono stata contattata da Esperya, che allora era una partecipata italiana del gruppo Espresso, Kataweb, fondata in Italia da Antonio Tambolini. Esperya nasceva in Italia con l’obiettivo di portare i prodotti italiani di altissimo livello negli Stati Uniti. Era la fine degli anni Novanta. Internet e il commercio sul web stavano diventando molto popolari. Vendere prodotti alimentari on line era di sicuro qualcosa di molto innovativo allora. Lascio il mio lavoro e a un certo punto prendo in gestione totalmente la società che viene ribattezzata Gustiamo e inizio la mia avventura nel mondo del cibo e la mia avventura in America, dove sono alla fine rimasta anche perché ho sposato un americano”.
Come è avvenuto il passaggio dai numeri al cibo?
“All’inizio ero all’oscuro di tutti gli aspetti che riguardavano il settore del cibo e del modo di gestire una società di piccole dimensioni. Ho imparato studiando, viaggiando, cucinando. Quando io sono arrivata, 26 anni fa, era difficile trovare gli ingredienti italiani. Negli anni, ho imparato a sceglierli e selezionare tutti i prodotti che importiamo con molta cura”.
Come scegli i produttori? Quale criterio ti guida?
“Andiamo a trovare personalmente tutti i produttori, li incontriamo, conosciamo il loro modo di produrre e di lavorare, viaggiamo, frequentiamo fiere, facciamo molti tasting, ascoltiamo consigli e pareri di clienti e amici. Scegliamo sicuramente i piccoli produttori, i prodotti che hanno una storia interessante da raccontare, che rispettano il cibo e il territorio. Indubbiamente vale su tutti il criterio della qualità”.
Pensi che oggi gli americani abbiano acquistato più consapevolezza rispetto al cibo?
“Non la massa ma di sicuro quell’un per cento che viaggia, si informa, vuole sapere. C’è più sensibilizzazione rispetto al passato e viene da movimenti come Slow Food USA che punta molto sul locale, sul territorio. Di certo il made in Italy tira moltissimo negli Stati Uniti ma nello stesso tempo non è protetto come si dovrebbe. La maggior parte dei consumatori sceglie in base al prezzo perché non si fa sufficiente informazione, sensibilizzazione e perché il governo italiano non fa abbastanza per proteggere i piccoli produttori e il made in Italy”.
E qui veniamo all’Italian sounding? Cosa deve fare il Governo per tutelare il made in Italy?
“Il Governo fa poco per tutelare i produttori italiani che rappresentano il nostro patrimonio agroalimentare. Se io mi trovo la bandiera italiana e quella europea su una bottiglia di olio fatto con olive spagnole o tunisine, significa che si sta facendo poco per tutelare il nostro patrimonio. Bisogna essere più severi con il made in Italy e non consentire, a livello legislativo, di spacciare un prodotto per italiano quando italiano non è. Nel mio piccolo io cerco di educare, parlare con i miei clienti, raccontare le storie dei miei produttori, puntare sull’autenticità e sul territorio”.
Quali sono le difficoltà in un business come il tuo che importa prodotti di alta qualità?
“Noi non miriamo al profitto, questa è la bellezza di essere indipendenti. Piuttosto mi interessa parlare di qualità, di cibo sostenibile, di storie di produttori che oggi con fatica riescono a fare un buon prodotto che rispetta il territorio, l’uomo e il consumatore. Le difficoltà sono legate ai prodotti che sono nella grande distribuzione e che sono venduti a prezzi bassi mentre la qualità è completamente diversa. Riuscire a comunicare questo concetto alla massa è sicuramente difficile. Noi però non rinunciamo”.
Perché oggi, soprattutto negli Stati Uniti, il cibo di qualità è costosissimo e sembra privilegio solo delle classi abbienti?
“Il problema non è del cibo di qualità che costa tanto ma del cibo spazzatura che costa pochissimo e che danneggia la salute e il mercato. Io sono convinta che il buon cibo debba avere il suo prezzo, non può costare poco perché dietro c’è un lungo lavoro. Quello che non condivido è che il cibo scarsissimo costa pochissimo e il consumatore viene ingannato”.
Il biologico in America sembra essere una tendenza o una presa di coscienza?
“Io non sono una fondamentalista quando si parla di biologico. Spesso qui è una moda come quella del gluten free. Anche il discorso del cibo locale e a chilometri zero, per quanto nobilissimo e rispettabilissimo, a volte in America diventa moda”.
Quali sono i prodotti italiani che vendete di più?
“Pasta, pomodoro, olio ma anche alcuni prodotti di nicchia come il torrone, i capperi, le marmellate. Oggi stiamo portando avanti un bel discorso con le farine di grani antichi siciliani. Un progetto che sta crescendo e di cui siamo molto soddisfatti. A Natale cresce sempre di più l’interesse per il panettone italiano e vorremmo espandere il nostro catalogo con i formaggi”.
Chi è il vostro cliente tipo?
“Chi compra on line è un consumatore colto che ha viaggiato, con un buon livello di istruzione e reddito, che preferisce la qualità, percepisce la differenza. I clienti commercianti sono invece titolari di negozi gourmet e mai di grandi catene. I ristoranti sono clienti attenti alla qualità dei prodotti piuttosto che alla quantità. Comprano sia nelle grandi città che nei centri più rurali”.
I piccoli produttori e i nuovi agricoltori potrebbero essere il nuovo futuro e la salvezza dell’agricoltura italiana?
“L’italia ha un potenziale enorme. E’ un paese di territori che per sopravvivere hanno bisogno di essere tutelati. A parte alcuni eroi, non vedo un quadro positivo e promettente per il futuro. Il made in Italy e i piccoli produttori non vengono tutelati in Italia”.
Quale allora, il futuro del cibo?
“Sarebbe auspicabile un ritorno alla tradizione ma, come dicevo prima, a parte qualche esempio di storie eccellenti, non vedo nessuna speranza. Bisognerebbe tornare a coltivare la terra, vivere in maniera più sostenibile. Ci riempiamo la bocca di grandi discorsi ma vedo pochi fatti”.
Cosa mangia e cucina Beatrice?
“Ho pochissimo tempo ma spesso a casa invitiamo amici e cucino la pasta mentre mio marito si occupa della grigliata. Uso prodotti di grande qualità. Le materie prime sono fondamentali”.