Il mondo del vino entra nella sua vita per un senso di colpa. Il ricordo della vigna del padre, nella zona del Chianti, ha accompagnato la sua infanzia e adolescenza. Delle giornate trascorse insieme al papà e al rito autunnale del vino, le rimane un profumo indelebile.
E pensare che lei il vino non lo beveva proprio. Ex astemia ed ex diplomatica, Alessandra Rotondi è oggi una delle sommelier più apprezzate e in voga a New York. Lei però, che è anche una wine consultant, giornalista enologica, ama definirsi piuttosto una vinaia, una raccontastorie. Le storie che piacciono agli americani durante i suoi wine tasting, poco hanno a che fare con i tecnicismi in cui spesso si perdono i sommelier.
Per Alessandra il vino è prima di tutto seduzione. Per questo ha creato una formula, un concept: Wine seduction. Una serie di lecture in cui Alessandra spiega l’origine e la storia del vino utilizzando tutti i cinque i sensi e lasciando al pubblico un sesto senso da scoprire.
Al destino di ambasciatrice, Alessandra non poteva in qualche modo sottrarsi. La sua carriera diplomatica, iniziata come stagista all’Ambasciata dell’Ecuador a Roma, l’ha portata a sviluppare e ad apprendere i meccanismi delle relazioni internazionali. Tutte competenze che ritornano utili nel momento in cui lei decide di cambiare vita dall’oggi al domani.
Nella sua mente, il pensiero della vigna di papà, uomo di scorta nella Presidenza della Repubblica, scomparso prematuramente. La proprietà dove la famiglia coltivava il vino fu messa in vendita perché nessuna delle figlie era in grado di occuparsene. Era l’11 settembre del 2001 e New York piangeva le sue vittime sotto il fumo delle Torri Gemelle. In quel momento, colpita, incuriosita, Alessandra decise di trasferirsi nella Grande Mela. Nasce la curiosità per il vino, la sua passione per la scrittura, la sua voglia di parlare del suo paese, di raccontarlo.
A New York arriva definitivamente nel 2006 ma non prima di avere, facendo la spola da Roma, intessuto una rete vera e propria di pubbliche relazioni, corsi di sommelier, studi sul vino, degustazioni in giro per il mondo. Barbetta, il primo ristorante italiano a NY, la scelse come sommelier di sala. E iniziò l’avventura che l'ha portata sulle prime pagine dei tabloid quando Ivana Trump le chiese di essere la wine consultant per il suo matrimonio. Da allora Alessandra non si è mai fermata. Inarrestabile, grintosa, determinata e sicura di sé, dopo alcuni anni è tornata in sala, al ristorante St. Ambroeus su Madison Avenue, per curare la carta dei vini e tenere alto il nome della migliore tradizione italiana enologica. Dal mondo del vino ha imparato una grande lezione: aspettare i tempi giusti e avere pazienza.
Dalla carriera diplomatica a quella da sommelier via New York. Cosa ti ha fatto cambiare idea e iniziare un nuovo capitolo in un campo completamente diverso?
Lavoravo già dal primo anno di università e avevo una carriera ben avviata. Poi però l’11 settembre del 2001 ha in qualche modo cambiato anche la mia vita. In TV, le immagini di New York mi hanno addolorato ma da lì è iniziato l’amore per questa città. Ho fatto le valigie e mi sono trasferita. Ho iniziato a cogliere la città nel suo quotidiano, a riflettere. Mi sono innamorata di questo posto. Mi sono chiesta: e ora che faccio? Ho pensato a mio padre, alla sua vigna che coltivava con amore, al vino. Mi sono sentita in colpa e in dovere di riprendere quel progetto. Ho iniziato i corsi di sommelier in giro per il mondo quando addirittura portavo un apparecchio ortodontico. Prende forma la mia passione per la scrittura e coniugo le due cose. Inizio così la mia carriera di sommelier.
È riduttivo definirti sommelier. Tu sei, non solo wine consultant, giornalista enogastronomica ma anche e soprattutto un'ambasciatrice della cultura enologica italiana. Nel tuo lavoro, quale aspetto tra questi, curi di più?
Tutti. Mi dedico all’aspetto più tecnico come quello legato alla scelta dei vini in sala nel ristorante St. Ambroeus ma nello stesso tempo organizzo e presento workshop sulla storia del vino. Da qualche anno ormai collaboro con Identità Golose e con il Festival del vino di Merano, presenzio molti eventi come Master of Ceremony. Scrivo di vino e cibo e soprattutto studio molto.
In un mondo, come quello dell'enogastronomia, dove domina la presenza maschile, l'essere donna ti ha aiutato oppure ostacolato agli inizi?
Questo mondo è ancora dominato dagli uomini. All’inizio, qualcuno non capiva il mio ruolo durante le lecturer di Wine Seduction durante le quali io volutamente indosso degli abiti sexy per sottolineare due messaggi: il vino è strumento di seduzione e io sono anche una testa pensante oltre che un corpo. Qualcuno però pensava fossi una velina.
Il tuo Wine seduction non è una semplice cena o degustazione ma come tu hai detto "is a state of mind". Come si svolgono i tuoi incontri e quali sono gli obiettivi? Educare? Sedurre?
Wine Seduction nasce quando ancora ero in Italia e frequentavo il mondo delle degustazioni che però trovavo troppo tecnico. Pensavo che questo tipo di presentazioni non avrebbe funzionato negli Stati Uniti dove amano la spettacolarizzazione delle cose. Ho unito l’idea del wine tasting a quella del dating, molto comune a NY. Nei miei incontri associo il vino ad un momento particolare del dating. C’è il vino del primo incontro, quello del secondo appuntamento. Quando spiego le caratteristiche del vino, tipo i tannini, indosso anche degli abiti che richiamano il corpo di un certo tipo di vino. La seta o il cachemire ad esempio.
Un format che forse in Italia non funzionerebbe?
C’è difficoltà a proporlo perché tutti abbiamo, bene o male, una cultura del vino, una vigna, uno zio vignaiolo.
Tu parli dell’Italia del vino attraverso la storia e la cultura.
In uno dei miei seminari ho proposto la nascita della nazione attraverso il vino. Due vini importanti, il Chianti e il Barolo nascono, il primo da Bettino Ricasoli, secondo presidente del Consiglio del Regno d'Italia, il secondo da Camillo Benso Conte di Cavour.
Solo da poco gli americani stanno imparando a bere meglio e ad avere un rapporto diverso con il vino. Cosa li incuriosisce, che consapevolezza stanno acquistando?
Stanno imparando molto perché c’è molta informazione intorno al mondo del vino. Sono molto interessati alle storie delle persone che stanno dietro ad una casa vitivinicola e meno ai dettagli tecnici. Capiscono che il vino è una sorta di Facebook ante litteram, serve per incontrarsi e stare insieme.
New York però rimane, nell’iconografia pubblicitaria e anche cinematografica, la città che brinda con vodka e martini…
Infatti quello del vino non è un mercato facile perché spesso nei ristoranti iniziano la cena con cocktail a base di vodka e martini e si finisce con cappuccino piuttosto che con vini da dessert. Io cerco di educare il mio pubblico ad iniziare un pasto con un vino, un prosecco. Un lavoro lungo ma che mi sta dando ottimi risultati.
Avrai anche una tua road map personale di vini che non dovrebbero mancare mai nella tua cantina.
Amo le bollicine, il prosecco che gli americani stanno apprezzando molto. Adoro i vini bianchi , in testa il Sauvignon Blanc ma anche i bianchi del Nord-est Italia.
Il vino di seduzione per eccellenza?
Senza ombra di dubbio il prosecco perché apre tante porte. Sulle bollicine l’Italia ha già superato la Francia.

Alessandra con Bill Clinton
Qui arriviamo alla storica competizione tra Italia e Francia. I grandi vini francesi vivono ancora dell’eterna grandeur?
Un vino francese è sempre un vino francese e i loro vini rimangono tra i più apprezzati in America. Questo anche perché la Francia è arrivata prima dell’Italia in America nella promozione del vino attraverso la cultura. La Francia arriva sempre preparata agli eventi con una precisa strategia di comunicazione e marketing. Soprattutto, i francesi si presentano compatti e non frammentati come gli italiani che arrivano disaggregati alle manifestazioni perché in noi prevale un istinto individualista molto forte. In Italia, anche nel mondo del vino domina troppo il politichese. Ho la fortuna, però, lavorando in un ristorante italiano, di introdurre e promuovere vini italiani.
Oltre ai grandi classici italiani di regioni come Piemonte, Veneto e Toscana, i vini del Sud si stanno guadagnando uno spazio rilevante?
Stanno crescendo molto. E penso ai vini pugliesi, campani e siciliani. Gli americani stanno imparando a conoscerli perché ne apprezzano il rapporto qualità prezzo che questi vini riescono a soddisfare. La New York di oggi non è più la città spendacciona degli anni '80 dove si pagavano fior di dollari per una bottiglia di vino pregiato.
Se New York fosse un vino, che vino sarebbe?
Più che un vino sarebbe un’immagine: quella legata al momento della raccolta delle uve, del movimento veloce del pigiare le uve. New York è troppo veloce per essere associata ad un vino.
Cosa occorre per conquistare New York?
Per rimanere in tema direi che bisogna imparare dal vino: tutti possono vivere a New York perché è una città, libera, multietnica, con mille input per essere alla portata di tutti. Analogamente, tutti possono fare un vino: basta una vendemmia, e far partire naturalmente, o inducendola, una fermentazione alcolica. Ma New York è estremamente demanding: passarci come una meteora è possibile a tutti; rimanerci ed avere successo è una sfida estremamente impegnativa che impone rinunce e sacrifici, ma poi premia la costanza, la determinazione e la fede che i sogni, solo se ben coltivati, con grande cura e dedizione, possono avverarsi. Come un vino da 100 punti su 100: per averlo non si deve puntare al risultato immediato; si deve avere pazienza, insistere, riprovarci, sperimentare, osare, seminare e saper aspettare il momento buono per raccogliere: il premio arriva e ne berranno molti. Il vino e New York sanno essere generosi. Io dal vino ho imparato una grande lezione: essere pazienti e saper aspettare.