Come tutti sanno, i ristoranti delle grandi città americane pullulano di aspiranti artisti. Futuri attori, musicisti e pittori ingrossano le fila della “hospitality industry”, mezzo classico di sussistenza per tutti coloro che siano in attesa di sfondare nel proprio campo ma che, nel frattempo, hanno bisogno di sbarcare il lunario.
Gli aspiranti giornalisti non fanno eccezione (soprattutto quelli che scrivono per pubblicazioni italiane) e anch’io, in passato, ho fatto la mia brava dose di gavetta.
Ciò mi ha consentito di osservare da vicino il rapporto che gli americani hanno con il cibo e che, secondo mio padre, è caratterizzato, per usare le sue parole, da “una fondamentale indifferenza tipica di chi ne ha sempre avuto in abbondanza”.
Ne sa qualcosa lui, che è cresciuto tra gli stenti della guerra e che non tollera alcun atteggiamento irrispettoso nei confronti del cibo. A casa mia, ad esempio, si è sempre assegnata la massima importanza al fatto che la pasta debba essere “attesa” al tavolo in modo da mangiarla immediatamente o che il pane vada tagliato in maniera netta e pulita e mai strappato con le mani.
Mia moglie invece che, da brava americana è cresciuta a Coca Cola e patate fritte, non esita ad impelagarsi in lunghe conversazioni telefoniche proprio nel momento in cui la cena è servita, sotto lo sguardo incredulo di mio padre che osserva, rassegnato, il piatto negletto e ormai moribondo.
Magari sarà anche vero che agli americani non sia mai mancato da mangiare e se questo può spiegare la loro succitata indifferenza, non spiega invece la mediocrità (ad essere generosi) della loro cucina.
Come molti popoli europei nel corso dei secoli infatti, gli inglesi hanno sofferto la fame quanto gli italiani e, malgrado ciò, la loro cucina è tremenda. L’Europa, in genere sembra essere attraversata da una ben definita linea di confine gastronomica: da una parte i Paesi latini dove si mangia bene e dall’altra quelli nordici, dove si mangia male. Non è un caso infatti che, in qualsiasi nazione vi troviate, ci sono molte più probabilità di trovare ristoranti italiani o francesi anzichè tedeschi o inglesi. Le radici culinarie d’America sono state decisamente trapiantate dal meno fertile terreno nordeuropeo.
In America c’è di buono che il suo “melting pot” etnico è anche un “cooking pot” culinario nel quale si trovano le cucine di tutti gli angoli del pianeta. Ristoranti che servono le specialità di ogni Paese asiatico, europeo o sudamericano rendono le cittá degli Stati Uniti veri e propri centri di “cosmopolitismo gastronomico”.
Negli Usa tuttavia, le possibilità di trovare un buon ristorante diminuiscono drasticamente man mano che ci si allontani dai principali centri urbani.
A New York o a San Francisco non c'é che l’imbarazzo della scelta ma se per caso vi troviate ad Okmulgee, Oklahoma, rinunciate pure ad ogni speranza di trovare alcunchè di commestibile.
In Italia è spesso l’opposto: di solito da noi i piatti più prelibati si trovano nelle piccole e oscure trattorie di paesini dai nomi sconosciuti.
Mangiar bene comunque non è, a mio avviso, solo una questione di ingredienti ma anche e soprattutto un atteggiamento mentale. In Italia, andare a mangiar fuori é l’occasione per passare del tempo in compagnia di amici o parenti e il tempo che passa tra una portata e l’altra non é mai un problema perchè quello é tempo riservato allo svago, al divertimento. In altre parole, é tempo libero.
Negli Usa invece il concetto di “tempo libero” è relativo e, anche al ristorante, è normale veder gente infuriata per i venti minuti di attesa tra gli antipasti e le pietanze. Nella terra del “fast food” dove pochi cucinano, sono ancor di meno quelli che comprendono che un piatto, per essere appetitoso, richiede il giusto tempo di preparazione. A ciò si aggiunge il fatto che l’americano è cronicamente incapace di rilassarsi e il tempo, compreso quello “libero”, è sempre limitato e scandito da orari rigidissimi.
C’è da dire poi che, mentre da noi la buona cucina è saldamente radicata nella nostra storia e nella semplicità della nostra cultura contadina, in America invece è un prodotto interamente d’importazione e, come tale, è spesso vissuta con un’insopportabile dose di snobismo e di esibizionismo altezzoso e, in fin dei conti, provinciale che spesso trasforma un’insalata troppo condita o un vino dell’annata sbagliata in una “questione di vita o di morte”.
Ciò accade perchè, come ho citato in precedenza, a differenza che in Italia, qui la “dining experience” è marcatamente urbana e porta con sè tutti gli attributi formali e le attese dell’evento sociale. Non c’è da stupirsi dunque per le frequenti scene di indignazione per una bistecca troppo al sangue o per l’eccessiva attesa del dolce.
Tutto ciò lascia sgomento mio padre, il quale non riesce a coniugare questo snobismo con le tante stranezze alimentari da lui scoperte nei supermercati Usa.
“Come fanno ad essere tanto pretenziosi se poi a casa mangiano questa roba?” mi ha chiesto perplesso indicando un’inquietante piramide di barattoli di ravioli precucinati o l’olio di oliva in confezione spray. “Ma sai – provo a rispondere – qui si vive di corsa…il consumismo…la praticità…” Come faccio a spiegargli…? Lo lascio andare in giro a guardare divertito tra i banconi del supermercato, come se si trovasse in un museo e, prima di mettermi in coda per la cassa, lo ritrovo mentre affonda il dito in una confezione di “Wonder Bread” saggiandone la consistenza spugnosa.
“Strana gente questi americani – mi dice ridacchiando – hanno mandato l’uomo sulla Luna ma non hanno ancora capito come si fa il pane…”.