Tra i sette colli di Roma, l’Aventino è il più appartato e tranquillo: nonostante si trovi a due passi dal Circo Massimo, quando lo si attraversa non sembra neanche di trovarsi in città. E in effetti per molti secoli questa zona è stata quasi del tutto abbandonata: i pochi abitanti rimasti nell’Urbe dopo la caduta dell’Impero andarono a vivere sull’altra sponda del Tevere, in Vaticano, e l’Aventino divenne campagna buona per mandare a pascolare gli animali. Eppure dove ora ci sono strade silenziose e alberate, che ricordano certe zone residenziali del Nord Europa, vissero i più antichi abitanti di Roma, i pastori guerrieri descritti da tanti poeti alle prese con la saga della fondazione della città.
Qui sorgeva un tempio importantissimo nell’antichità, quello dedicato a Diana. Secondo la tradizione il luogo di culto venne edificato subito dopo la scomparsa di Romolo, durante il regno di Servo Tullio. Popolo agricolo, i primi romani erano per natura legati a questa divinità abitatrice dei boschi e armata di arco e frecce. Modellato sul tempio di Efeso in Turchia, l’edificio resistette fino al 36 a.C., quando venne fatto ricostruire da Lucio Cornificio, generale e grande amico di Augusto. Oggi restano solo le fondamenta della cella interna, l’area sacra alla quale solo i sacerdoti potevano accedere. Chi vorrà dargli un’occhiata però potrebbe girare invano tutto l’Aventino senza trovare alcuna indicazione: stanco della ricerca potrebbe decidere di mangiare in uno dei ristoranti della zona, “Apuleius”, e lì trovare senza saperlo l’oggetto delle sue ricerche: una delle sale del locale si trova proprio sopra le mura perimetrali della cella.
Questo genere di “sovrapposizioni” rappresenta la norma per una città che è stata abitata ininterrottamente per quasi 28 secoli: il nuovo si è sempre costruito sul vecchio, sommando strati su strati di storia che non sempre gli archeologi possono andare a grattare scoprendo quel che c’era. Anzi, che il tempio di Diana sia in qualche modo tornato alla luce è quasi un miracolo: dell’edificio sacro si erano perse le tracce per secoli. Si sapeva della sua esistenza grazie alla “Forma Urbis” (sorta di “mappa” in marmo della città in buona parte giunta fino a noi), ma gli stabili costruiti in tempi moderni avevano reso impossibile qualunque campagna di scavo.
«Una volta il locale non comprendeva la sala dove si trova la base della cella – ci spiega Emiliano Ferretti Min, che del locale è attuale proprietario -. Un giorno un geometra che veniva spesso a mangiare qui consigliò al padrone di allora di provare a vedere cosa c’era oltre la parete di fondo: fu così che il tempio venne riscoperto». Le fondamenta sono oggi visibili grazie a dei pannelli trasparenti che permettono di mangiare “sospesi” sopra uno dei luoghi sacri del mondo pagano.
La casa di Diana non poteva tornare alla luce in un ambiente più appropriato: l’intero locale è una celebrazione dell’arte e del fascino dell’antica capitale del mondo. Le pareti sono affrescate con riproduzioni di pitture romane, pompeiane e non, mentre su mensole e ripiani stanno esposti reperti originali (ovviamente registrati dalla Soprintendenza per i beni archeologici). La soglia che dal vestibolo immette nella sala principale è retta da due colonne con capitelli spaiati, uno ionico e uno corinzio. L’ambiente riesce a evitare l’effetto kitsch grazie alla finta noncuranza con la quale gli oggetti sono disposti: pare di trovarsi a mangiare nell’atelier di un mercante d’arte di quelli che si vedono in tante stampe d’epoca. I tavoli sono disposti con parsimonia, non si rischia di darsi di gomito col vicino, e da ognuno è possibile fissare lo sguardo su qualche particolare che entrando non si era riusciti a notare.
Partiti per indagare una storia di divinità si finisce per scoprirne una ben più terrena ma – visto che è di cibo che stiamo parlando – non meno appagante per lo spirito. “Apuleius” era conosciuto negli anni Cinquanta col nome di “Musichiere”: il proprietario era un ex pugile e cameriere diventato famoso e pure piuttosto ricco grazie a “Lascia o Raddoppia?”, prima trasmissione di grande successo condotta da Mike Bongiorno. A quei tempi l’Aventino era una zona periferica, trovandosi a poche centinaia di metri dalla Piramide Cestia, che fino agli anni Cinquanta serviva a marcare il confine tra città e campagna. Il locale comunque andava bene, e con l’imborghesirsi della zona cominciarono a comparire a tavola i primi personaggi di rango: «Tra gli anni Settanta e Ottanta questo era un porto di mare di altissimo livello» – spiega Emiliano -. «Qui venivano parlamentari e ambasciatori, e pare che una volta ci mangiò persino Gorbaciov. Erano di casa anche i giocatori della Roma, perché la società aveva la sede a poca distanza da qui».
Come per il tempio di Diana però anche l’epoca d’oro del “Musichiere” finì, e il locale venne dimenticato per qualche anno, finché la famiglia Ferretti Min non decise di comprarlo, ribattezzandolo. Il nome scelto – ispirato dall’Apuleio autore delle “Metamorfosi” – pare proprio azzeccato per un luogo che accoglieva i devoti della dea e che ora ospita i devoti della buona tavola. «Abbiamo sempre vissuto in zona e ricordavamo bene la gente che veniva qui tutte le sere, così ci siamo convinti a prenderlo anche se nessuno di noi aveva esperienza nella ristorazione – ricorda Emiliano -. Trovammo il nostro primo cuoco con un annuncio su Porta Portese (giornale di annunci gratuiti ndr): era un ragazzo giovane che però aveva lavorato con diversi chef stellati». I primi tempi non furono facili, occorreva trovare un equilibrio tra cucina e sala da pranzo, capire che genere di esperienza offrire ai clienti. «Volevamo proporre delle ricette non troppo elaborate, a volte addirittura tradizionali, però con un’impronta personale che le rendesse diverse da qualunque altra cosa si potesse trovare altrove». Per trovare il menù perfetto, aggiunge, niente ha funzionato meglio del secchio della spazzatura: «Se quando chiudiamo ci trovo pochi avanzi di cibo vuol dire che è andata bene, che i piatti sono piaciuti. Quando qualcuno ti dice “era ottimo ma era troppo” sta mentendo. Se qualcosa ti piace davvero finisci a costo di alzarti da tavola con i crampi e stando male tre giorni. Io voglio vedere i miei clienti fare la scarpetta con il cibo».
Per un certo periodo in cucina si è cimentato anche Deuk Uoo, fratello di Emiliano e oggi chef professionista. «Ora, a cinque anni dall’apertura, sono del tutto soddisfatto del menù, che finalmente è espressione mia. Certo, non sono un cuoco, ma è anche vero che mangio da tempo immemorabile, quindi qualcosina sul cibo la capisco». A volte l’idea per una ricetta nuova viene accostando ricordi di specialità assaggiate in posti lontani, come l’haché “scozzese” di manzo, un finto hamburger servito con patate e scalogno marinati in una salsa.
“Si tratta di un bel pezzo di carne preso dal macellaio a Testaccio e cotto intero. Quando hai della carne di alta qualità non ha senso macinarla. Questo taglio rimane rosso dentro ma è comunque ben cotto, senza traccia di sangue». Provando e cambiando, forse il locale è pure riuscito a trovare il suo piatto simbolo, quello senza il quale nessun ristorante riesce ad avere davvero successo: una carbonara col tartufo servita col tuorlo d’uovo crudo aggiunto alla fine, al momento d’impiattare. Certo l’ambiente regala un sapore aggiuntivo: qui si è circondati dai resti di un passato che non è mai passato del tutto. «Siamo letteralmente seduti su resti di ogni genere: tempo fa, per dei lavori alle condutture del gas, agli operai bastò scavare venti centimetri per trovare dei magazzini di epoca alto medievale. Probabilmente era un locale annesso alla dogana che doveva trovarsi proprio sotto di noi, visto che una volta Roma “cominciava” da qui». In fondo è giusto che “Apuleius” sorga proprio in questo punto: agli ingressi della città c’erano sempre delle locande dove riposarsi e mangiare qualcosa prima di infilarsi nel caos urbano. Senza saperlo, questo ristorante prosegue una tradizione che va avanti da millenni.