Lo Stato del Silenzio, in anteprima all’ultimo Tribeca Film Festival e presentato alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Best Screenings, ci trascina nelle vite di quattro coraggiosi giornalisti messicani, impegnati in una battaglia che supera di gran lunga il semplice atto di raccontare: è una lotta per la sopravvivenza e per la libertà di espressione. Diretto da Santiago Maza e prodotto dalla casa di produzione La Corriente del Golfo, fondata dagli attori Diego Luna e Gael García Bernal, il documentario offre un racconto brutale e sincero del devastante legame tra narcotraffico e corruzione.
Tra i protagonisti, Maria de Jesús Peter Pino e suo marito Juan de Dios García Davish vivono in prima persona l’incubo che raccontano. Giornalisti veterani, hanno visto la loro vita stravolta da minacce mortali e intimidazioni, soprattutto da parte del temibile cartello di Los Zetas. Dopo anni trascorsi a documentare le violenze contro i migranti nella regione di Tapachula, Chiapas, sono stati costretti a fuggire. Da premiati cronisti internazionali a rifugiati in esilio, la loro storia rappresenta l’emblema di una professione indispensabile ma carica di rischi.
“Abbiamo sempre raccontato le storie degli altri, ma ora dobbiamo raccontare la nostra”, confessa Pino. In queste parole si riflette il tragico destino di chi, da osservatore del mondo, si ritrova catapultato in prima linea nella lotta contro la censura e la repressione. La minaccia non è più solo il microfono, ma la violenza che incombe su chi osa parlare.
Lo Stato del Silenzio restituisce dignità a quei giornalisti spesso nascosti dietro le notizie, rendendoli visibili, umani, vulnerabili. Lo spettatore è trascinato nelle loro case, dove il rischio si intreccia con la quotidianità. Maza chiarisce il suo obiettivo: far capire al pubblico che dietro ogni reportage ci sono vite appese a un filo. Non si parla solo del Messico, ma di un fenomeno globale: “Parlare di giornalismo in Messico significa parlare di criminalità organizzata, corruzione, desaparecidos e impunità. E questo è un problema che riguarda tutto il mondo”.
Un momento iconico del film è quando Davish riceve una telefonata da un boss del cartello, che minaccia di assaltare la sua casa e rapire la sua famiglia. Una scena che rivela quanto sia sottile la linea che separa chi riporta i fatti da chi ne diventa vittima. Ma in mezzo all’orrore, c’è anche spazio per la speranza. Il ritorno di Pino e Davish a Tapachula, dopo un esilio forzato negli Stati Uniti, è il simbolo della loro determinazione. Anche se, come ammette Pino con triste realismo, “non è più possibile fare giornalismo come prima”, il loro impegno per la verità resta saldo.
L’approccio del documentario è sobrio e diretto, evitando ogni forma di sensazionalismo. Il regista ci invita a riflettere sul fatto che il giornalismo, in molti luoghi del mondo, non è solo una professione, ma una missione che richiede un coraggio straordinario. La chiusura del film è un tributo ai giornalisti uccisi in Messico, con una lista di nomi che scorre durante i titoli di coda. È un doloroso promemoria che queste vite spezzate continuano a crescere in numero. Nonostante le speranze legate all’elezione di Claudia Sheinbaum come presidente del Messico, Maza rimane cauto: “Un cambiamento politico da solo non basterà per fermare questa strage”.