Presentato in prima mondiale nel 2003 alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes, L’isola, opera prima di Costanza Quatriglio, è uscito in oltre 20 paesi nel mondo. Nell’opera troviamo la cifra del realismo magico per la favola senza tempo di Turi e Teresa, cresciuti amando il mare e la bellezza della natura. Figli di un pescatore, la loro crescita si intreccia con la vita dell’isola di Favignana, a ovest della Sicilia. Tra i membri del cast lo scrittore, poeta e giornalista Erri De Luca al fianco dei giovanissimi Veronica Guarrasi e Ignazio Ernandes. Abbiamo incontrato la regista Costanza Quatriglio.
Come ci si sente a tornare ad Alice nella Città con una copia restaurata del proprio film / debutto?
Tornare qui con l’Isola è una grande gioia, un grande orgoglio, e anche una responsabilità, sono grata ad Alice e a Cinecittà per il restauro compiuto. Vivo tutta questa esperienza con la leggerezza del cuore, sono felice, molto felice non dò niente per scontato, è un riconoscimento molto importante per me.
Cosa ti lega all’Isola e perché ne hai fatto un film di finzione?
Il film l’ho fatto ritagliandomi uno spazio magico, in un’isola in cui ho filmato una delle ultime mattanze in quella tonnara. Dopo l’uscita nei cinema, la tonnara è stata chiusa ed è diventata uno spazio museale. Quindi ho colto quel passaggio di una Favignana che è diventata più turistica ed ha cambiato identità. Poi se vogliamo parlare dell’ancestralità del ruolo dei pescatori e dell’esser marinai, quello esiste sempre, la questione è che la mattanza non si fa più e la tonnara è chiusa e che una Teresa di oggi corre dietro ad un cellulare. Ho voluto quindi raccontare un mondo che non c’è più anche se ha al suo interno la questione dei generi a suo modo.
Il film è quanto mai attuale con al centro il tema dell’identità. Cosa è cambiato in 20 anni?
Si parla di più di identità di genere, ma non ci sono stati grandi passi avanti per eliminare lo stigma di chi non sente di appartenere a quello assegnato alla nascita. Nel film, abbiamo lei, femmina, non può fare il pescatore, si identifica con l’isola, con la fatica del rito “maschio” della pesca del tonno, e lui che è il maschio, destinato a fare il pescatore e ad avere con il mare anche un rapporto di conflitto e di violenza, vorrebbe però uccidere i tonni, vorrebbe solcare il mare. Propone un uomo mite che non è lo stesso che gli è stato insegnato nella linea patria, quindi la contemporaneità del film sta in questo.
Fai parte di una nuova classe di autrici e autori che negli ultimi anni è stata capace di raccontare il reale. Come hai maturato la tua cifra stilistica fortemente visionaria
Tutto quello che è l’ispirazione letteraria cosi come quella cinematografica fa parte dell’ambiente in cui sono cresciuta fin da bambina, posso dire di aver interiorizzato un certo gusto, ma che io abbia scelto scientemente un tipo di ispirazione di racconto verghiano o neorealista non lo posso dire perché non sarebbe corretto. Ci sono delle connessioni che però possono fare gli altri, non le posso fare io. A quel tempo mi nutrivo di tutto il cinema possibile e immaginabile. Ero molto giovane, stavo al centro sperimentale e ho fatto un workshop con Kiarostami, 10 giorni a Palermo nei quali ha modificato il finale de “Il sapore della ciliegia”, poi lui ringrazia i ragazzi di Palermo alla fine del film. Ma bevevo tutto il cinema, bianco e nero, colore, americano, western.
Le donne che realizzano documentari spesso vengono definite attraverso etichette
È un problema non solo delle documentariste. Etichettare è una scorciatoia per non approfondire il lavoro di un autore e semplificare concetti ed esperienze. Certo coinvolge più le donne. Tuttavia, penso che non sia un problema di etichetta quanto di mancanza di autrici. Man mano che più donne faranno cinema sarà più facile diversificare le voci, i film, i prodotti, avremo più storie diverse. Con poche donne e poco budget avremo meno possibilità.