“Mentre molti miei colleghi e amici stavano fuggendo dalla Russia, nel pieno della crisi del 2022, io ho scelto di affrontare la situazione in modo diverso”. Il risultato è Russians At War, della regista russo-canadese Anastasia Trofimova, in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Un racconto viscerale e crudo che getta uno sguardo dietro le quinte della guerra, svelando ciò che raramente si vede nei media internazionali.
Tutto è cominciato quando Trofimova ha incontrato per caso un soldato russo su un treno. L’uomo, che tornava per una breve pausa dal fronte per visitare la sua famiglia, le ha raccontato della sua esperienza in guerra.
“Mentre tutti guardavano l’Ucraina, e giustamente, mi sono resa conto che nessuno stava davvero mostrando l’altra parte”, afferma la regista.
Trofimova ha trascorso sette lunghi mesi con i soldati russi vicino al fronte ucraino, nella regione annessa del Donestk; è riuscita a entrare in contatto con diversi soldati e a passare inosservata tra le file dell’esercito russo, il tutto senza che il suo progetto venisse scoperto dalle autorità.
All’inizio, molti di loro erano diffidenti. Temevano che il film potesse essere utilizzato contro di loro o che potesse mettere in pericolo le loro famiglie. Tuttavia, col passare del tempo, la loro relazione con la regista si è evoluta. “Eravamo in trincea, c’eravamo solo io e due infermiere”, ricorda Trofimova, “ma non mi sono mai sentita minacciata da loro”.
La macchina da presa non si limita a riprendere l’azione della guerra, ma si sofferma su momenti di attesa, su pause sospese tra la vita e la morte. In questi momenti emerge la loro umanità: soldati che, tra un bombardamento e l’altro, scherzano, fumano, parlano delle loro famiglie. Immagini che svelano un lato della guerra una realtà nascosta non solo al mondo, ma anche agli stessi russi.
Sono persone comuni, non i “supereroi” che la propaganda russa dipinge, né i mostri spesso descritti dai media occidentali. “Non volevo glorificare i soldati, ma neanche demonizzarli”, precisa la regista, “volevo semplicemente raccontare ciò che stava accadendo, oltre le semplificazioni di parte”.
Il film è una coproduzione internazionale, e, come racconta Trofimova, non sarebbe mai stato possibile realizzarlo solo in Russia. Le riprese, condotte spesso sotto copertura, erano sempre a rischio di essere scoperte dalle autorità russe, che avrebbero potuto bloccare il progetto.
La complessità di questo documentario emerge anche dalla trasformazione psicologica dei soldati stessi.
Ogni guerra trasforma chiunque vi sia coinvolto, non solo sul piano fisico, ma anche su quello emotivo e morale. È un ciclo di violenza che si autoalimenta, e i soldati che Trofimova ha incontrato ne sono stati tragicamente intrappolati.
Alcuni di loro, come Ilia, iniziano il loro percorso con un forte senso patriottico, mentre altri, come Cedar, sembrano più scettici.
Eppure, con il progredire del conflitto, vediamo un cambiamento nelle loro convinzioni. Il patriottismo si scontra con la brutalità della guerra, e molti di loro si trovano a dover fare i conti con la perdita di amici e compagni. In particolare, Cedar, che inizialmente si presentava come un pacifista con un tatuaggio per la pace mondiale, finisce per diventare più cinico e disperato, segnato dalle esperienze traumatiche sul campo.
Trofimova riesce a raccontare una storia senza schierarsi apertamente, ma permettendo allo spettatore di vedere la guerra per quello che è: una tragedia senza vincitori, che lascia cicatrici indelebili in chi la vive.
La regista ha infine ricordato come, al termine di una delle giornate di riprese più intense, un soldato le abbia detto: “Non so nemmeno perché sono qui”. Quella frase, semplice ma devastante, racchiude l’essenza del documentario: la guerra, al di là delle motivazioni geopolitiche, è sempre una questione profondamente umana.