Una giovane donna, colta e sensibile, ha inspiegabilmente ucciso la sua bimba di due anni, forse per un tragico e disperato affronto al compagno. Una giovane scrittrice sta scrivendo un romanzo ispirato a lei, intitolato Il viaggio di Medea, e segue quotidianamente il processo.
Superficialmente, questa è la struttura di Saint Omer, lungometraggio d’esordio della regista senegalese Alice Diopp, in concorso alla 79ª Mostra del cinema di Venezia. Il film però, rispetto all’apparenza di un legal drama, è piuttosto uno sconvolgente racconto sulla portata dirompente della maternità, spogliata di tutto ciò che di edulcorato gli stigmi sociali costringono a dire. Anche noi entriamo nel film attraverso lo sguardo della scrittrice Rama, che è incinta e percorsa da dubbi profondi: la vicenda dell’imputata Laurence, in qualche modo, la ri-guarda, la tocca nel profondo, nelle pieghe dei suoi tormenti si riconosce.
E allora sarà come lei? Farà del male a suo figlio? In controluce, Rama rivede anche la figura di sua madre, ora malata, alla quale non riesce a perdonare un a serie di cose avvenute nella sua infanzia. Sarà capace di essere diversa da lei? Diopp, con uno stile asciuttissimo, che predilige lunghi e statici primi piani e dialoghi molto articolati, entra con sincerità nell’indicibile della maternità, il suo essere esperienza sconvolgente e destrutturante, nelle complicate sfaccettature morali e nelle infinite e schiaccianti responsabilità.
Il suo è un racconto corale davvero tutto al femminile, che vive sui volti delle due giovani protagoniste, Rama e Laurence, e su quelli della giudice e dell’avvocata della difesa, che illuminano la vicenda con altre preziose sfumature. Un film efficace, equilibrato, lontano da ogni ipocrisia, tra i migliori di questo concorso di Venezia 79.
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