A 7 anni da Revenant, Iñárritu torna al lungometraggio e sbarca al a Venezia, in concorso, dove già aveva battezzato con grande fortuna il suo Birdman (2014), instradandolo sulla via degli Oscar.
Lo fa con Bardo (Or False Chronicle of a Handful of Truths), che costituisce anche un recupero dell’ambientazione messicana, che mancava nella filmografia del regista da Amores Perros (2000). In maniera per certi versi simile al connazionale Cuaron, che grazie a Netflix con Roma aveva recuperato il legame con la sua terra d’origine, anche Iñárritu, supportato dalla piattaforma californiana, tenta la via della memoria attraverso il flusso di coscienza torrenziale dell’alter ego Silverio Gama, documentarista e giornalista messicano trapiantato negli Stati Uniti, che prima di ricevere un premio alla carriera a Los Angeles, fa ritorno in patria per ricongiungersi con la sua famiglia e i suoi amici, intraprendendo un viaggio alla ricerca della parte più autentica di sé.

A differenza di quanto Cuaron era stato in grado di fare con Roma, l’autenticità è proprio l’elemento che manca clamorosamente a questa torrenziale opera barocca, divorata dal narcisismo virtuosistico del suo autore. Proiettati in una dimensione sospesa tra le realtà e il sogno, seguiamo gli smottamenti dell’inconscio del protagonista in un mosaico che si va via via chiarendo solo verso la fine, tra rimpianti e ricordi, tra relazioni finite e mai cominciate, tra impegno civile e sconsolata resa al perbenismo borghese, tra appartenenza indigena e il compromesso con l’imperialismo americano.
Tuttavia, la prima cosa che soffoca questo percorso che vorrebbe essere intimo e delicato è il soffocante barocchismo della messinscena. Il regista messicano, supportato da un superlativo Darius Khondji alla fotografia, non riesce a limitare la sua vena virtuosistica ed è sempre e costantemente sopra le righe, soffocando il racconto con vertiginosi piani sequenza, spericolati movimenti di macchina e altri mirabili pezzi di bravura tanto sorprendenti quanto mai davvero necessari, un campionario di bravura che stritola l’intimità della storia e finisce per essere respingente.
Il secondo elemento controproducente è il registro da realismo che la scrittura di Iñárritu e del co-sceneggiatore Nicolás Giacobone non riescono mai a governare. Gli onnipresenti simbolismi, le allegorie e le metafore sono quasi sempre eccessive, talvolta addirittura grevi (su tutte, la rappresentazione visiva del ricordo di Silverio di un figlio perso subito dopo essere nato, raccontato con un repertorio di immagini simboliche prive di ogni forma di delicatezza), sempre di sciabola e mai di fioretto e soprattutto spesso scontate e spiegate in modo ridondante, quasi ci fosse, da parte di Iñárritu, una preoccupazione costante sulla loro intellegibilità da parte del destinatario.
Non c’è mai nulla di sospeso, di accennato, non ci sono sfumature o significati aperti, ma una rete di significanti costantemente all’insegna dell’eccesso. Nelle quasi tre ore del film affiorano qua e là dei rari momenti di sottrazione, che arrivano quasi come un sollievo in mezzo all’accecante ridondanza del resto e che sono i momenti migliori del film e anche un piccolo rammarico: alcuni dialoghi, alcuni sguardi, alcune riflessioni sono toccanti e arrivano al cuore, le altre ambizioni del film, però, si perdono sotto il peso schiacciante di una forma eccessiva.