Il cortometraggio “Refuge”, diretto da Federico Spiazzi e prodotto da Federica Belletti e presentato nella rivista New Yorker una settimana fa, non è solo un prodotto della crisi dei rifugiati che ha messo in ginocchio l’Europa, ma è ispirato da storie umane, di amicizie e di situazioni spontanee che ci accomunano nonostante le differenze.
Con una durata di appena dieci minuti, il film ci trasporta dentro una piccola pasticceria nel centro di Atene. Dalla vetrina del negozio, si osservano numerose famiglie di migranti, provenienti dal Nord Africa, dal Medio Oriente e dall’Asia , in fila sotto il sole cocente, davanti a un consolato. All‘improvviso, un temporale estivo inizia a far piovere, e tutti coloro che erano in fila, o che stavano passeggiando nelle vicinanze, entrano nella pasticceria per trovare riparo dalla pioggia. Fra i tanti, c’è anche un turista tedesco, che incuriosito da una torta salata esposta sul banco, chiede alla proprietaria il suo contenuto. Lui parla tedesco e inglese, mentre lei solo il greco, e l’incomunicabilità fra i due scatena un gioco del telefono fra la folla di persone. Ognuno traduce la parola nella propria lingua finché gli ingredienti vengono finalmente tradotti all’Inglese.
Il film ha partecipato a più di venti festival del cinema negli Stati Uniti e in Europa, vincendo numerosi premi per tutta quella complessità cinematografica ma anche antropologica, sociale e politica, racchiusa in quelle semplici scene dentro alla pasticceria.

Il direttore Federico Spiazzi e la produttrice Federica Belletti si sono conosciuti alla Columbia University mentre stavano completando i loro studi. Tutto è nato da una prima conversazione, in cui Belletti e Spiazzi iniziarono a confrontarsi su un tema che stava a cuore a entrambi: la crisi dei rifugiati in Europa.
“Ci siamo posti delle domande sul modo in cui noi italiani e l’Italia in generale, stessimo approcciando il tema dei rifugiati.” Racconta Belletti.

“L’occasione della conversazione era nata in virtù del fatto che stavo preparando il mio film di tesi,” dice Spiazzi. “Mi ero interessato alla migrazione, al passaggio dei migranti in Italia diretti verso il nord Europa e al modo in cui l’Italia rappresentasse un limbo per questi migranti che in realtà dall’Italia ci volevano solo passare”.
Spiazzi, che in Italia vive in una città nei pressi del confine Nord, fu toccato da vicino dalla crisi dei rifugiati quando l’Austria chiuse i confini nel 2015.
“Avevo un’amica giornalista con cui feci dei viaggi al confine con l’Austria e la Svizzera. Basandomi su queste esperienze, iniziai a scrivere delle storie ispirate a questa ricerca, e resi partecipe Federica,” spiega Spiazzi. “Abbiamo approcciato questo progetto con un faro documentaristico dal quale alla fine è stata tratta una storia di finzione che rappresenta l’esperienza della mia ricerca.”
Nel 2015, al picco della crisi dei migranti, molti paesi all’interno dell’Unione Europea, iniziarono a prendere iniziativa a discapito della collaborazione con gli altri stati membri, aumentando i controlli alle frontiere e chiudendo i confini. L’Italia e la Grecia, divennero i maggiori punti di accesso per i migranti in cerca di una nuova vita in Europa.
“Da italiano, è stato interessante vedere come il tuo paese diventa un porto di accesso che viene isolato dagli altri paesi, specialmente non essendo in grado di offrire misure di accoglienza efficaci per i migranti,” spiega Spiazzi.
Mentre i confini geografici chiudevano, i confini della ricerca di Spiazzi si estendevano. Fece il suo primo viaggio in Grecia per puro interesse personale; per osservare da vicino la situazione dei rifugiati nel contesto di un altro paese, di un altro porto di accesso all’Europa.
“Mi sono unito ad una ONG e sono andato a visitare dei campi profughi dove ho fatto degli incontri molto speciali con delle famiglie siriane a cui mi sono affezionato. Ho ritrovato quei temi che mi avevano mosso, ad Atene ho trovato un’espressione ancora più forte di tutto quello che era l’essenza della mia ricerca,” racconta Spiazzi.
Infatti, Spiazzi e Belletti girarono “Refuge” ad Atene nell’estate del 2017, e a parte qualche attore professionista, la maggior parte delle persone che appaiono nel film sono famiglie di migranti e rifugiati che Spiazzi conobbe in Grecia.
La scelta di includere queste persone e di farle recitare in un film che ritrae la loro vita, fu una scelta non solo estetica, ma anche pratica.
“Il piccolo film che abbiamo fatto, a livello narrativo crea una circostanza di finzione nella pasticceria, in cui ci sono degli attori professionisti, ma il momento in cui tutti entrano per ripararsi dalla pioggia, è un momento vero. Ogni persona che c’è lì dentro parla la lingua che parla nel film, appartiene alla cultura che essa rappresenta” dice Spiazzi, aggiungendo che avere a disposizioni i suoi amici, con i loro volti, le loro lingue e il bagaglio culturale che si portano dietro ha creato una dinamica che sarebbe stata impossibile da replicare con degli attori.
Dal punto di vista pratico, Belletti spiega, la scelta di includere proprio le persone la cui storia è raccontata nel film, li ha aiutati a riconoscere e affrontare i rischi artistici ed etici in cui avrebbero potuto incorrere se si fossero appropriati di una prospettiva che non gli apparteneva.
“E’ stato un percorso che ci ha aiutato a capire quale fosse la prospettiva più adatta per raccontare questa storia. E poi una volta definite le linee narrative, quelle linee sono diventate un canovaccio che abbiamo adattato sul set in base alle diverse circostanze che si presentavano. C’è stata un’unione di cinema e realtà che abbiamo abbracciato con le sue rivelazioni e le sue problematiche,” spiega Belletti.
L’idea di prospettiva è stata fondamentale per la realizzazione di questo film. Infatti, il punto di vista scelto da Belletti e Spiazzi, proprio come la linea narrativa principale, è frutto delle esperienze vissute da Spiazzi.
Mentre ancora in fase di ricerca ad Atene, Spiazzi accompagnò una famiglia siriana composta da una mamma, sei figlie e due figli più piccoli, al consolato francese per un colloquio. Fecero una lunga fila insieme a molte altre famiglie, e al momento di entrare, Spiazzi fu accompagnato fuori. Rimase ad aspettare in un bar, le cui vetrine davano sull’entrata del consolato dove decine di altre famiglie aspettavano in fila.
“In quel momento ho avuto una rivelazione rispetto a quello che volevo raccontare: ero vicino a queste persone, ma ero inevitabilmente distante. Questo ha creato la vetrina della pasticceria nel film,” racconta Spiazzi.
Questa stessa esperienza, ha creato un cambio fondamentale nel tipo di sguardo che Spiazzi e Belletti hanno voluto gettare sulla crisi dei rifugiati, ha ispirato non solo i diversi fili tematici del film, ma anche il titolo. Mentre all’inizio del loro percorso volevano rappresentare in maniera più cruda e soggettiva l’esperienza dei rifugiati, una volta capito qual era veramente il loro punto di vista, ovvero quello di osservatori Europei che guardano la situazione dei migranti da una posizione di comfort, trovarono un nuovo punto focale: il “refuge” o il rifugio.
“La pasticceria, in modo abbastanza semplice, rappresenta un rifugio, un ombrello comune che nel momento della pioggia, ripara tutti sotto lo stesso tetto,” dice Belletti. Dal punto di vista visivo e simbolico, il film propone esattamente questo: la pasticceria come rifugio, ma è un’immagine che si presta anche a letture più profonde.
Anche se il film rimane neutro dal punto di vista politico, lasciando spazio alle interpretazioni del pubblico, “nel momento in cui tutti si ritrovano sotto il tetto di questa pasticceria, vediamo una rappresentazione in scala più piccola di quello che l’Europa rappresenta per queste persone”. racconta Belletti.
Per Spiazzi, la scena nella pasticceria è l’attimo fuggente di una unità che si crea fra le persone che ci partecipano e anche l’eco di una metafora politico-economica che lui chiama missed opportunity.
“I paesi limbo del sud Europeo, come la Grecia e L’Italia, che i rifugiati vogliono solo attraversare per arrivare al Nord, perché economicamente non ci vedono niente, hanno qualcosa di umano da offrire,” spiega Spiazzi.
Questi paesi finiscono per essere un’opportunità mancata per l’Europa di offrire un’accoglienza più efficace e per i migranti, di trovare un rifugio che un giorno possa somigliare a casa: una vera e propria missed opportunity.
Sia a Spiazzi che a Belletti, questo progetto ha dato moltissime soddisfazioni, specialmente a livello personale.
“Con molte delle persone che sono apparse nel film sono ancora in contatto, e sono anche andato a trovarli nei paesi in cui si sono stabiliti. Dal punto di vista umano è stato bellissimo,” dice Spiazzi.
Un’altra grande soddisfazione è stata quella di avere raggiunto un pubblico, ha spiegato Belletti, “ e di aver raccontato una storia che provocasse emozioni”.
Da quando è stato pubblicato sul New Yorker una settimana fa, Refuge ha ricevuto migliaia di visualizzazioni, ma ciò che più di tutto ha colpito i due filmaker, è stato il riscontro positivo di un pubblico toccato dalla loro storia e dalle tematiche che volevano trasmettere. Paradossalmente, la piccola incomunicabilità ritratta nel film di Spiazzi e Belletti, esprime il suo messaggio con forza, chiarezza e altrettanta compassione.