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September 7, 2021
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September 7, 2021
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A Venezia 78 si ammira il bel film di Mario Martone “Qui rido io”

Alla mostra del cinema la storia di Eduardo Scarpetta, attore, commediografo e patriarca di una delle più grandi dinastie artistiche del palcoscenico italiano

Simone SpoladoribySimone Spoladori
Time: 3 mins read

Il concorso della 78esima Mostra del cinema di Venezia procede mantenendosi su un livello di qualità molto elevato. Certo, sono arrivati anche i primi film stonati, come Sundown di Michel Franco e Mona Lisa and the Blood Moon di Ana Lili Amirpour, film interessanti ma decisamente imperfetti che risaltano in modo particolarmente negativo nel contesto di una selezione così forte.

Funziona benissimo il terzo italiano in concorso, Qui rido io di Mario Martone, film solido e intenso. Racconta la storia di Eduardo Scarpetta, attore, commediografo e patriarca di una delle più grandi dinastie artistiche del palcoscenico italiano, gli Scarpetta/De Filippo. Toni Servillo giogioneggia da par suo nei panni dell’inventore della maschera di Felice Sciosciamocca, uomo istrionico, eccessivo, padre di nove figli in nuclei famigliari diversi.

A Martone, però, non interessano soltanto la biografia e l’omaggio: il film infatti si concentra su un fatto realmente accaduto, che mette fine alla carriera di Scarpetta, costituendo però un passaggio fondamentale per la cultura italiana del Novecento, cioè la causa intentata all’attore napoletano dal “vate” Gabriele D’Annunzio, per via della parodia del suo La figlia di Iorio realizzata da Scarpetta.

Dove finisce la parodia e dove inizia il plagio? Dove può spingersi il diritto di satira? Questioni che Qui rido io affronta con intelligenza e sobrietà, nel contesto di una ricostruzione storica – come sempre in Martone – assolutamente impeccabile.

Erano attesi a una conferma dopo essere stati premiati nel recente passato Lorenzo Vigas, venezuelano Leone d’oro nel 2015 con Desdé Allà, e Valentyn Vasianovich, che ha vinto la sezione Orizzonti nel 2019 con il sorprendente Atlantis. Promossi a pieni voti entrambi, possiamo dire, con due opere che confermano stile e temi fondamentali delle loro precedenti opere.

Vigas ha presentato La caja, un dramma che vede protagonista un bambino di Città del Messico, Hatzin, che dopo aver recuperato le spoglie del padre trovate in una fossa comune si convince che in realtà il genitore sia ancora vivo e che sia Mario (interpretato da Hernán Mendoza), uomo che somiglia al genitore scomparso. Non è un’opera priva di difetti, soprattutto per via della sensazione che Vigas vada a toccare tante questioni senza essere in grado di riprenderle tutte, eppure il racconto del bisogno di Hatzin di una figura paterna in cui identificarsi è toccante e commovente.

Più riuscito è Reflection, il ritorno di Vasianovich, che racconta la dimensione nuova e sconosciuta del conflitto tra Russia e Ucraina. Nella storia di un chirurgo, rapito dalle forze filorusse, torturato e poi riconsegnato alla sua quotidianità, si vede tutta l’assurdità di un conflitto che è lì, a due passi dalla vita di tutti i giorni, invisibile ma subito dietro ai confini della città, una dimensione anomala e raramente rappresentata al cinema, che il regista ucraino ritrae con una regia virtuosa e una messinscena brutale e inquietante.

Brutale è anche L’evènement di Audrey Diwan, adattamento del romanzo autobiografico L’evento (2000) di Annie Ernaux, che racconta l’odissea di Anne, studentessa di lettere che rimane incinta nella Francia degli anni ‘60, quando l’aborto è illegale e punito con il carcere e la cultura patriarcale è un dato di fatto granitico senza alternative. La solitudine e la disperazione della fanciulla, ben interpretata dalla giovane Anamaria Vartolomei, è raccontata senza sconti, anche quando si tratta di mostrare i tentativi artigianali e falliti di aborto della fanciulla.

Per chiudere questo excursus nei primi giorni della seconda settimana della Mostra, due parole su La scuola cattolica di Stefano Mordini, film molto atteso perché tratto dall’omonimo romanzo Premio Strega di Edoardo Albinati, che ricostruisce il contesto sottoculturale in cui sono cresciuti i ragazzi autori del massacro del Circeo.

La versione cinematografica è però un’opera davvero infelice, superficiale e per certi versi anche deleteria, che semplifica in modo pericoloso un contesto complesso come quello della Roma neofascista degli anni ‘70. Presentato fuori concorso, è un film da dimenticare.

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Simone Spoladori

Simone Spoladori

Nato a Milano, laureato in lettere e laureando in psicologia, di segno pesci ma non praticante, soffro di inveterato horror vacui. Autore per radio e TV, critico cinematografico, insegnante, direttore di un'agenzia creativa di Milano. Oltre ai film, amo i libri e credo che la letteratura americana del '900 una delle prime tre cose per cui valga la pena vivere. Meglio omettere le altre due. Drogato di serie TV, vorrei assomigliare a Don Draper, a Walter White o a Jimmy McNulty. Quando trovo il tempo, mi diverte a scalare montagne, fare foto, giocare a tennis, cucinare e soprattutto mangiare ciò che cucino. Sono malato di calcio, tifo Manchester United e Milan, ma la mia vera guida spirituale è Roger Federer.

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