Dopo il resoconto delle prime tre puntate, torniamo con i risvolti finali dell’ultima parte.
Woody Allen non ci sta. Si è espresso sul documentario Allen v. Farrow (HBO) definendolo un prodotto “che non ha nessun interesse nel raccontare la verità”. I registi hanno commentato rendendosi disponibili per un ipotetico quinto episodio, ribadendo di aver contattato Allen e la moglie Soon-Yi già durante le riprese. Il motivo è semplice: la quarta parte conclusiva non lascia più scampo a quella che sembra essere la dura verità, condivisa da una fetta consistente di attori, registi e produttori di Hollywood. Da chi ha lavorato direttamente con Allen (come Kate Winslet, Griffin Newman, Timotheè Chamalet, Selena Gomez, Colin Firth, Mira Sorvino), alla dichiarazione pubblica di Natalie Portman sulla CBS, fino ai successivi e numerosi tweet di supporto: nel footage tutti esprimono la loro posizione “I believe you, Dylan”.

E’ il 2018, ed è il secondo tentativo da parte di Dylan Farrow di esporsi pubblicamente per raccontare gli abusi subiti da parte del padre adottivo, nonché il grande artista acclamato protetto dal mondo intero. Citando Ronan Farrow, suo fratello, l’audience del 2018 rappresenta una concatenazioni di eventi e motivazioni rafforzate dallo scandalo del Me Too, di cui lui stesso si fa portavoce pubblicando un’inchiesta su Harvey Weinstein. “Si può notare come la reazione sia stata diversa quando mia sorella ha parlato nel 2014 e quando lo ha fatto di nuovo nel 2018. La cultura è cambiata su quel fronte, per la prima volta stavamo sentendo voci e storie come la sua” racconta ai registi.

Ma cosa è successo nel 2014? Come già accennato negli episodi precedenti, Allen fu premiato per la carriera ai Golden Globe, conquistato ancora una volta la vetta, a discapito della sua tenebrosa vita privata. Proprio quel giorno, Ronan Farrow (perennemente scettico nei confronti di una dichiarazione pubblica da parte della sorella), twitta: “Ho perso il tributo a Woody Allen – hanno messo la parte in cui una donna ha confermato pubblicamente che lui l’ha molestata all’età di 7 anni prima o dopo Annie Hall?”. La provocazione di Ronan, giornalista affermato e personaggio pubblico, arriva dopo la prima conversazione sincera con Dylan sui fatti del ’92. Ronan visiona i documenti della Corte, la dichiarazione dello Yale New Heaven Hospital, e si ritrova di fronte a quello che definisce un errore giudiziario.

La sua natura giornalistica gli impedisce di rimanere nell’ombra, nemmeno dopo la lettera della verità inviata da Dylan al New York Times e all’LA Times, dai quali viene rifiutata. Ronan contatta prontamente il columnist del New York Times Nicholas Kristof, suo conoscente e amico di famiglia. Kristof sente il dovere di dare voce alla parte lesa della storia, pubblicando questo “pezzo straordinario e commovente” il 1 febbraio del 2014 nel suo blog.
La lettera comincia così:
“Qual è il vostro film preferito di Woody Allen? Prima di rispondere dovreste sapere che quando avevo sette anni, Woody Allen mi prese per mano e mi portò in una piccola soffitta al primo piano di casa nostra, mi disse di stendermi e di giocare con il trenino di mio fratello. Quindi abusò sessualmente di me, e mi parlò mentre lo faceva, sussurrandomi che ero una brava bambina, che questo sarebbe stato il nostro segreto, e mi promise che saremmo andati insieme a Parigi e io sarei stata una grande attrice nei suoi film. Ricordo che fissai quel trenino girare in tondo lì in soffitta, e ancora oggi mi viene difficile guardare i trenini”.

Il polverone mediatico risulta convincente perfino per critici e distributori. A Rainy Day in New York (2019) manca degli accordi con Amazon Studios e non viene mai distribuito negli USA. Dall’intervista con Miriam Bale, una film programmer e critico cinematografico, apprendiamo di un suo articolo pubblicato nel 2017 “Critic’s Notebook: Why I Will Never Watch a New Woody Allen Film Again”. Il grande dilemma è: possiamo separare l’arte dall’artista? Da Roman Polanski, Bill Cosby, Kevin Spacey, Michael Jackson… Non c’è una risposta uguale per tutti. Intervistata dai registi, Anna Salter (esperta di abusi su minori e psicologa), afferma “Penso che il pubblico abbia molti problemi a credere che qualcuno che gli piace possa essere un criminale sessuale. La gente investe emotivamente dal personaggio di quella persona. E si fidano di loro, i fan non rinunciano facilmente alla fiducia”.

Ma la resa dei conti arriva anni dopo anche per il procuratore del Connecticut Frank Maco. I due si incontrano per un’intervista esclusiva del documentario, trent’anni dopo il loro ultimo contatto. Maco scelse nel ’93 di non coinvolgere la bambina di sette anni in un lungo ed estenuante processo, evitandole un trauma insostenibile. Oggi, Dyaln Farrow sente di non aver avuto l’opportunità di farsi giustizia. Racconta commossa: “Una parte di me vorrebbe davvero che avessi avuto il mio giorno in tribunale”. E il procuratore risponde “Posso dirti subito che è colpa mia, non c’è mai stata la possibilità che ti sottoponessi ad una cosa del genere”. La bravura dei registi nel ripercorrere tutti questi anni dal tragico episodio, rappresenta il primo prodotto mediatico realmente empatico e approfondito sul caso. Non è più semplicemente prendere una posizione, siamo di fronte ad un connecting the dots tangibile dove la voce portante coincide con quella della vittima.

Il cerchio si chiude su Mia Farrow, dove tutto è cominciato. “Quando il documentario uscirà, lui farà di tutto per difendersi e attacare per salvarsi di nuovo”. I suoi figli adottivi, ad eccezione di Moses, rigettano le accuse di molestie e violenze narrate da Soon-Yi nei confronti della madre. E come previsto, Allen si è sinteticamente esposto ribadendo la sua posizione: “Mentre questa immondizia può guadagnare attenzione, non cambia però i fatti”. La regista Amy Ziering commenta al The Hollywood Reporter: “Abbiamo la sua voce narrante, i suoi scritti, le sue conferenze stampa con le sue parole, le sue testimonianze in tribunale. La sua parte è rappresentata. Ed è il benvenuto a fare un’intervista. Un’offerta permanente. Siamo sicuri che la HBO farebbe un quinto episodio. Noi siamo qui”.
Attendiamo quindi un possibile seguito, per ora non confermato, di questo documentario ormai cronaca. Ci vorranno sicuramente delle grandi abilità di scrittura per trovare le parole giuste di fronte alla fortezza eretta dalla figlia Dylan. E sappiamo che al regista di certo non mancherebbero.
Qui la recensione dei primi tre episodi.