Quando Bobby Seale, leader delle Pantere Nere, rientra in aula legato e imbavagliato per continuo oltraggio alla corte, si ha la percezione di una netta voragine tra la giustizia e l’abuso di potere. Dopo questo episodio, il giudice Julius Hoffman decide di procedere con il processo di Seale separatamente dagli altri, lasciando quindi in aula quelli che danno il nome all’ultimo film di Aaron Sorkin (Netflix, 2020): i Chicago 7.
The Trial of the Chicago 7 può essere definito in due modi: una rappresentazione di uno dei processi più famosi degli Stati Uniti, oppure lo specchio di una perenne faida tra establishment e voce del popolo. Possibile candidato agli Oscar, la produzione Netflix è magistralmente scritta e diretta dallo sceneggiatore di Steve Jobs (2015) e The Social Network (2010). Il talento di Sorkin risiede tanto nella regia e nella scrittura del film, quanto nell’abilità di fornirci quantitativi importanti di dettagli storici, senza i quali non sussisterebbe quello spessore narrativo e recitativo che la maggior parte dei critici associano al film. Non basta dire che lo script è basato sui fatti di Chicago dell’agosto 1968 e sui successivi cinque mesi di processo, a cavallo tra la presidenza di Johnson e quella di Nixon. La regia di Sorkin è un abile amplificatore della realtà, non un manipolatore dei fatti. The Trial of the Chicago 7 è l’eredita di un accanimento giuridico basato sulla fragilità delle minoranze, la testimonianza romanzata della recidiva necessità del potere di censurare leader e opposizione.

Estate 1968, migliaia di ragazzi e ragazze arrivano a Chicago in occasione della 35° Convention Democratica per protestare contro il coinvolgimento degli Stati Uniti in Vietnam. Sotto ordine del presidente Johnson e del sindaco Daley, vengono mobilitati cinquemila soldati della Guardia Nazionale dell’Illinois più diecimila agenti incluse la squadra anti sommossa. Sorkin descrive una folla in rivolta, mobilitata da una concatenazione di cause ed effetti che esula completamente dalla volontà collettiva di esercitare violenza sulle forze armate. A suo modo si schiera a favore della protesta condannando l’abuso di potere, supportando dove possibile la realtà con un dramma appassionato. Il potere della parola e delle idee rimane un materiale troppo prezioso per non sviscerarlo. Ed anche per questo Sorkin si serve di un cast stellare per assicurarsi la riconoscibilità del pubblico. Eddie Redmayne, Joseph Gordon-Levitt, Sacha Baron Cohen, Michael Keaton, solo per citarne alcuni.
Partendo da uno spezzone di repertorio, la chiave dell’intero film è dichiarata già nel primo minuto: la lotta per una politica di pace in Vietnam. Protagonisti del processo, i principali attivisti coinvolti nella mobilitazione di Chicago: Tom Hayden e Rennie Davis (fondatori dell’SDS – Studenti per una Società Democratica), David Dellinger (capo del Comitato per la Mobilitazione contro la Guerra in Vietnam), Abbie Hoffman e Jerry Rubin (leader del Partito Internazionale dei Giovani), Bobby Seale (leader delle Pantere Nere), Lee Weiner e John Froines (attivisti inseriti nel processo per equilibrare i pesi delle accuse).“Se cercano di intimidirci e non rispettano il primo emendamento spaccandoci la testa, allora reagiremo” dice Bobby Seale poco prima di recarsi a Chicago. Il primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, dibattuto ora come non mai in occasione della manifestazione a Capitol Hill, è la materia principale della difesa dei 7. William Kunstler e Leonard Weinglass (esperti del primo emendamento) sono infatti gli avvocati coinvolti nel processo. Sorkin lo scrive bene nella sua sceneggiatura: le condanne si basarono sulla legge federale Rap Brown: una legge creata da bianchi del Sud e dal Congresso per limitare la libertà di parola agli attivisti neri, ma nessuno ne era mai stato accusato citando il procuratore protagonista Richard Shultz. La tesi del Dipartimento di Giustizia: cospirazione per violare i confini statali e incitare alla violenza. Il punto è che nessuna legge federale fu davvero violata durante la rivolta, e che il protrarsi del processo fu decretato principalmente dalla “creativa” e dispotica gestione da parte del giudice Julius Hoffman.

E’ giusto parlare di rivoluzione culturale? Dovremmo dare la colpa agli agenti o ai manifestanti? E cosa si intende per processo politico? Il film scorre cavalcando queste domande, analizzando i frammenti temporali pre-processo e le dinamiche relazionali dei protagonisti durante i mesi di accuse. Ci ritroviamo a tifare per gli imputati che ridicolizzano la corte indossando toghe per contestare la legittimità del procedimento, vogliamo assistere alle testimonianze, farci un’idea sul valore di una protesta così forte quanto svantaggiata. Ci affezioniamo alla foga appassionata con cui difendono il loro attivismo politico, alla loro caratterizzazione così minuziosa, emozionale e a tratti sdrammatizzata. Se da un lato la fragilità dei movimenti sembra risiedere nella ricerca di una identificazione generazionale, dove i giovani si oppongono ad arruolarsi, dall’altra parte la maggioranza al potere si avvale di modi riduttivi e superficiali per descrivere il nemico: anticonformisti, portatori di oscenità, distruttori della società americana. Eppure, questa classe sociale così pericolosa è la stessa che in prima battuta si è occupata di diritti civili e discriminazioni razziali, vedova di personaggi come Martin Luther King.
In qualche modo si ha la percezione che le rivolte giovanili, le minoranze e le proteste facciano parte della fisiologia del sistema americano, senza mai trovare l’appoggio politico necessario o gli strumenti per una soluzione. Oggi, ci ritroviamo di fronte ad un ribaltamento delle fazioni. Un suprematismo bianco (pubblicamente favorevole alla violenza) marcia verso Capitol Hill e il presidente uscente degli Stati Unti viene oscurato dai social per evitare che inciti alla rivolta. Tutto ciò alimenta la sensazione che una politica razzista abbia volontariamente e lentamente abbandonato le minoranze d’America, dimenticandosi dei veri protagonisti della working class e dello spirito democratico su cui è fondata la Costituzione. Dopo Capitol Hill, molti si sono chiesti cosa sarebbe successo ai manifestanti se fossero stati invece membri del Black Lives Matter, diffondendo la percezione di una spaccatura sociale dove ciò che dovrebbe essere punibile diventa opinabile. L’assassinio di Fred Hampton (presidente delle Pantere Nere) avvenuto durante il processo ai Chicago 7, conserva la stessa motivazione razziale dell’omicidio di George Floyd ucciso l’anno scorso. In questo senso, il 1968 non sembra poi così distante dal 2021.

Quello che i vietnamiti avrebbero poi descritto come un’inutile invasione da estirpare, molti americani lo hanno vissuto come un sacrificio sterile. Da entrambe le parti, effetti collaterali di immensa portata hanno deviato quelle che sarebbero potute essere politiche di rinnovamento (come fu il tentativo del GPR in Vietnam – il Governo Provvisorio Rivoluzionario) o la fiducia nei detentori del potere. A posteriori, manifestare a Chicago non era del tutto insensato, e di certo avrebbe fatto risparmiare agli Stati Uniti risorse, dollari, e vite.
Durante il processo dei Chicago 7 furono ascoltati 193 testimoni e redatte 20.000 pagine di verbali. Se quello che vediamo su Netflix non è esattamente la copia della verità, è solo perché la settima arte rivendica spesso il diritto di ricamare positivamente le falle del passato. Così forse, avremo meno riluttanza e più coscienza nel costruire il futuro.