Tratto dal romanzo Hillbilly Elegy (2016) di J.D. Vance, l’adattamento Netflix diretto da Ron Howard è la traduzione perfetta del sottotitolo in copertina: A Memoir of a Family and Culture in Crisis. Uscito nel giugno del 2016, la storia di Vance risuonava allora come la sua espiazione e vittoria personale nei confronti di un passato tra povertà e violenza. Nato e cresciuto in Ohio, ha dato voce agli americani bianchi delle classi operaie residenti nella regione degli Appalachi e del midwest. Che questo frangente geografico abbia rappresentato una fetta di voti decisiva per la vittoria di Donald Trump, è una lettura ancora oggi fondamentale alla luce del vento democratico portato da Joe Biden.
J.D. Vance non è solo l’autore di un libro. Dopo le elezioni del 2016 le sue apparizioni televisive non si contano. Viene più volte intervistato dalla CNN e il New York Times gli chiede di scrivere come columnist per fare da tramite tra il suo passato e il nostro presente politico. Vance racconta gli hillbilly, un termine dispregiativo che accompagna i residenti delle aree rurali, un modo per mettere l’accento sul loro analfabetismo e la loro decadenza. Cresce nella cittadina di Middletown, un tempo oleata dalla produzione del carbone, delle acciaierie, dell’indispensabile manovalanza della working class. «Nella nostra società fondamentalmente ancora razzista, il vocabolario non va quasi mai al di là del colore della pelle: parliamo di “neri”, di “asiatici” e di “bianchi privilegiati”. […] Per questa gente la povertà è la tradizione famigliare, i loro antenati erano operai nel Sud schiavista, e poi braccianti, artigiani e operai. Gli americani ci chiamano hillbilly, redneck o white trash. Io li chiamo vicini, amici, la mia famiglia» così si legge nelle primissime righe d’introduzione.
La consistenza della sua narrativa autobiografica risiede nel sapore che l’accompagna, quello della cintura di ruggine (Rust Belt) considerata un tempo il cuore industriale dell’America. L’albero genealogico di Vance ha le radici nelle colline di Jackson, Kentucky. I suoi nonni emigrano giovanissimi dalle regioni dei monti Appalachi verso l’Ohio, alla ricerca di un benessere che si trasforma presto in miseria e violenza domestica. Vance passa la sua infanzia nutrendosi del disagio della sua comunità, un luogo dove fucili, violenza e droga convivono sotto lo stesso tetto. Un padre alcolizzato e una madre eroinomane rendono la vita di Vance a Middletown un inferno. La fortuna di Vance furono i suoi nonni, che nonostante una vita di stenti e sussidi statali, sono riusciti a preservare in lui il principio di un sogno americano trasformato poi in realtà. J.D. si arruola nei marines, passa quattro anni in Iraq, si laurea alla Ohio State University e si specializza in legge a Yale.
Il lieto fine non è fuorviante, è semplicemente ciò che è successo e che ha permesso a Vance di venire allo scoperto. Partendo da una storia vera, approdiamo nella vastità di una povertà storica che dal Kentucky attraversa i monti Appalachi, il West Virginia, l’Ohio. Parliamo di territori già storicamente poveri che hanno ricevuto il colpo di grazia con la scomparsa del manifatturiero, ma non basta parlare di insicurezza economica. Vance vuole raccontare «le vite delle persone reali quando l’economia industriale si delocalizza».
Nel film – che racconta un arco di tempo dal 1997 al 2007 – il protagonista giovane (Owen Asztalos) e la sua versione adulta (Gabriel Basso) affrontano una battaglia ben peggiore e senza fine con la figura materna: Bev (Amy Adams). Un senso di deresponsabilizzazione aleggia nel personaggio di Bev, infermiera senza un lavoro fisso che chiede al figlio di riempire i vasetti delle urine per i suoi esami tossicologici. Le violenze di Bev nei confronti del figlio sono magistralmente dirette da Howard, creano empatia nei confronti di un bambino che della vita non sa niente tranne che la cosa più importante è la famiglia. Lo script trova qui la sua quadra hollywoodiana: Vance adulto lotta letteralmente contro il tempo per aiutare Bev dopo un’overdose e guadagnarsi il posto a Yale nello stesso giorno. Peccato però che “salvare” non sarà il termine giusto, ed è in questo che probabilmente la pellicola si salva dall’essere quella che l’Atlantic ha definito essere una descrizione caricaturale di un mondo che Hollywood non riesce a comprendere.

Vance non ha vinto il sogno americano, se l’è guadagnato. «Siamo il posto da cui veniamo, ma scegliamo ogni giorno chi diventeremo» ci confessa fuori campo. C’è dell’amara speranza che da queste parole ci riporta all’alba di Biden. Come può un presidente con idee così diverse da quelle di Trump, guadagnarsi il favore di una classe sociale così frammentata e disperata? Nonostante gli aiuti massicci elargiti dalla presidenza Obama nei confronti delle industrie sull’orlo del fallimento, poco poteva essere fatto per dirottare l’inevitabile futuro tecnologico. La narrativa dovrebbe lasciar spazio alle lotte dei sindacati, agli sforzi concreti delle comunità di cui poco si parla. Dove sono finite poi le nuove generazioni?
A ridosso della vittoria di Trump, la professoressa di scienze politiche e politologa Katherine Cramer rilasciava interviste sul suo libro The Politics of Resentment (2016), offrendo un punto di vista diverso nella lettura delle zone rurali americane. Non bastava parlare di rabbia, invitava invece a considerare la politica come un fatto d’identità personale. Per comprendere questo sentimento, ha scritto, dobbiamo capire come Trump ha sfruttato la percezione che queste persone hanno di loro stesse. Nella cultura americana, dove il duro lavoro deve combaciare con il merito, la qualità della vita non può venir meno. A questo giro, ed anche nel rispetto di tutti gli hillbilly lì fuori, per Biden sarà importante comprendere in che modo queste persone guardano il mondo e come ci si vedono all’interno. Abbiamo visto più blu quest’anno, si parla di unione e guarigione, concetti tanto scontati quanto nuovi. E forse domani ci sarà meno ruggine e rabbia.
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