“Chiedere una grazia è affidarsi all’invisibile, è tenere viva la speranza di un altrove di luce che è al tempo stesso lontano e vicino, un altrove con cui si dialoga. Chi chiede una grazia sa che la cura vive di reciprocità e di attesa”.
Alexandre Roccoli racconta alla Voce di New York il suo “Di Grazia”. Guardando lo spettacolo si rimane folgorati dall’intensità della rappresentazione del dolore, delle ferite, del mondo degli ultimi, della sofferenza del mondo femminile del Sud dell’Italia. E’ come assistere a una messa, a una grazia cantata, vissuta nell’interpretazione meravigliosa di Roberta Lidia Di Stefano, straordinaria artista calabrese.

Sotto l’ombra di un vulcano, delle tarante, dei canti siciliani e calabresi, delle zampogne, delle catene, della Ciociara, Alexandre Roccoli, di padre siciliano e madre calabrese, nato e cresciuto a Parigi, ha girato mezzo mondo e la sua compagnia A short term effect di fama internazionale. Regista, drammaturgo e coreografo italo francese, alla tredicesima edizione del Napoli Teatro Festival , Alexandre ha debuttato in prima assoluta nel Cortile delle Carrozze del Palazzo Reale di Napoli, con “Di Grazia”, performance prodotta da Espace des Arts, Scène Nationale de Châlon-sur-Saône, A short term effect, in coproduzione con Bonlieu Scene Nationale d’Annecy, La Ménagerie de Verre, Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia e con il sostegno di Institut Français d’Italie e TeatrInGestAzione.
Lo spettacolo ruota intorno all’identità femminile e nell’identità di genere, riallacciandosi ad alcune figure archetipiche femminili e icone del cinema come Sofia Loren e Anna Magnani. “Di Grazia”è un viaggio delle ferite femminili dove si apre anche una finestra sulla questione di genere dal punto di vista sociale e politico indagando le tradizioni culturali del territorio. Di Grazia è l’esito di un progetto coreografico, diretto da Alexandre Roccoli, in collaborazione alla direzione artistica e drammaturgica di Roberta Lidia De Stefano, cantante e musicista di origine calabrese, con Séverine Rième e Benoist Bouvot, musicista-compositore.
Il lavoro contiene una grande quantità di brani musicali tratti dal repertorio della tradizione musicale popolare e italiana, e rimanda alle sonorità di strumenti folkloristici delle regioni del Sud Italia dove si intrecciano storie diverse. Si ispira ai culti del paesaggio napoletano, dell’Italia del Sud e del bacino del Mediterraneo, come nella proiezione che precede la piéce del film di Alexandre Roccoli “Mamma Schiavona” che prende il nome dalla Madonna dei Femminielli di Montevergine celebrata ogni anno il 2 febbraio in occasione della Candelora, festa di fede e folklore con la salita al Santuario tra tammorre e invocazioni, un antichissimo pellegrinaggio per andare a chiedere una grazia alla Madonna degli ultimi. Mamma Schiavona in una sorta di loop ipnotico, come una lenta litania, dipinge varie figure della storia dei Femminielli di ieri, di oggi e di domani con le interpretazioni di Cry Mascia, Loredana Rossi, Stefania Zambrano, la Tarantina, rappresentanti del movimento transessuale napoletano, che rivivono e riabitano i loro corpi, la loro pelle, la loro voce in un rito ancestrale salendo i gradini, inginocchiandosi, pregando ma soprattutto cantando. Prossima tappa di “Di Grazia”a Lecce il 5 settembre Lecce Museo Tarantina Castromediano di Lecce mentre a marzo e aprile del 2021 andrà in scena a Parigi, al Bonlieu Annecy Espace Malraux à Chambery Ménagerie de verre Paris.
Alla Voce di New York Alexandre Roccoli e Roberta Lidia De Stefano.

Alexandre, hai debuttato a Napoli con una performance nel mondo femminile e nell’identità di genere: partiamo dal titolo, come una preghiera “Di Grazia”.
“Posiut ma desolatam significa “mi hanno abbandonato” nel senso che “è ormai sono da solo con te mondo invisibile”. Chiedere una grazia è affidarsi all’invisibile, è tenere viva la speranza di un altrove di luce che è al tempo stesso lontano e vicino, un altrove con cui si dialoga. Chi chiede una grazia sa che la cura vive di reciprocità e di attesa”.
Come si colloca “Di Grazia” nel tuo percorso artistico?
“È una nuova tappa in un processo di creazione che è iniziato nel 2014 con il solo Longing e si è sviluppato poi con Weaver Quintet nel 2015. Questi due spettacoli, sotto forme molto diverse, avevano come origine l’interesse che nutro per il fenomeno del tarantismo – che si incarna nelle donne “tarantolate” che esiste nel Sud dell’Italia per decenni.
A proscenio un altare, le candele, come un rito religioso. Una preghiera?
“Il velo e nostro dispositivo visuali di creare immagine mentale e indurre la possibilità di non dire tutto ma di invocare di creare una dinamica nell’occhio e soprattutto un rapporto al di là di vedo che cosa vedo. Vedere al di là nell’immaginario di chi vede meglio dentro o lo che non si vede. Vogliamo rendere visibile il mondo invisibile rendere omaggio a le persone dietro le quinte dalla richiesta a la Madonna dei Femminielli a un canto di Mina dove chiedere ancora significa “ma più!” Il nostro linguaggio e doppiato post-synchronisatie, dissociato. C’è nella scenografia una duplicità che richiede sempre un mondo parallelo quello di dentro e quello dei “di là”.

In “Di Grazia” canti di tradizione, dalla Calabria alla Sicilia, nascono dalle storie familiare?
“Mia Mamma cantante, mio padre musicista. Sono cresciuto con tutto questi canti da bambino. Era per me come una dimensione di un mondo antico che scivola nel mondo presente e futuro. Da bambino le mie zie e mie nonni mi portavano nelle proiezione religiose, quei riti mi affascinavano”.
Mamma Schiavona raccoglie la preghiera alla madonna dei femminielli. Come è nato questo corto?
“Il lavoro con Valeria Borelli e Marzia Mauriello e le quattro figure Femminielli: Loredana Rossi, Cri Maschia , Stefania Zambrano e La Tarantina è un storia che nasce quest’anno a Montevergine. Il film è una lenta litania che procede e trasforma la tessitura del canto per Mamma Schiavona, la Madonna dei Femminielli di Montevergine. Il corpo e la voce diventano dissonanti fino a creare un’enfasi ipnotica. Il progetto Di Grazia, in cui si intrecciano storie diverse create per curare varie ferite, tra cui quella della mancanza di una madre, prevede la proiezione del film che, come in una sorta di loop ipnotico, dipinge varie figure della storia dei Femminielli di ieri, oggi e domani”.
La performance si adatta ai luoghi dove la rappresenti, un cortile, una chiesa, un teatro: perché hai deciso di portarla nel Sud dell’Italia? Lo vedremo anche all’estero?
“Lo portiamo nel sud dell’Italia da dove Roberta ed io veniamo: la Calabria,la Sicilia. Tutto l’immaginario viene del Regno di Napoli, la nostra memoria genetica è fatto la nostra storia, le nostre nonne, mamme. E’ un omaggio alla terra del Sud, al mare, alle montagne ma soprattutto alla condizione delle donne e le loro ferite. Vogliamo girare Di Grazia ovunque, nelle chiese, nei cimiteri dell’Italia, nei teatri. Di Grazia è un lavoro di ricontestualizzazione che ha tutto il cuore il sangue e anche ancora il veleno: è nostra Italia a corpo aperto”.
La protagonista dello spettacolo di Alexandre Roccoli è Roberta Lidia De Stefano. Roberta, nella piéce, canti reciti suoni la zampogna. Rievochi lo stupro della Ciociara interpretata da Sofia e la Magnani, scene dolorose, forti: perché loro?

“In realtà La Ciociara è un punto di riferimento centrale nella rielaborazione drammaturgia che noi abbiamo introdotto nella piéce. Questa violenza di certo ha fatto scatenare un immaginario post bellico e cinematograficamente neorealista tutto italiano. Un’ estetica che pullula di punti di riferimento che sono culturalmente presenti e vivi ancora oggi nel sud del mondo. Sono un’attrice del sud, che si appassiona e che passa attraverso la forza per scoprire la sua fragilità. Dunque queste donne di grande personalità e spessore sono ovviamente dei punti di riferimento ma al tempo stesso spero di aver rielaborato in scena un’ icona di un femminile originale e personale, sganciata anche da questi, seppur nobilissimi, stereotipi”.
Quando hai cantato “Ancora” di Mina, sull’altare, sembravi a metà strada tra un dittatore ed Evita Peron. E nella piecé ti sei denudata il seno: perché?
“Denudarsi il seno è stata una richiesta registica in primis, è perché ho un bel seno! Scherzo! Il seno nudo è un lavoro sull’immagine un pò in stile pittorico caravaggesco. Mi denudo dopo la violenza, divento martire e pietà di me stessa. Madre e figlia del dolore. La mia nudità dei seni femminili, fa parte di quella fragilità a cui accennavo prima. Sull’aspetto politico dietro l’altare un po’ dittatoriale un po’ presidentessa, è scaturito dal flusso del viaggio compiuto, reduce dalla Ciociara nella seconda guerra mondiale, divento un po’ “tedesca” per così dire…e al tempo stesso rientro nella contemporaneità di un corpo “politico” dietro a due microfoni, un po’ “femen”: un movimento di rivolta E rivendicazione femminista. I linguaggi si mescolano a creare una rottura profonda inconciliabile. Quando tutto quello che ti faceva male, in realtà è quello che cerchi, e tutto quello che cerchi è inaspettatamente il contrario di ciò che ti aspettavi. Arrivi a cantare “ancora ancora sul mio collo ancora” pensando “mai più mai più sul mio corpo” credo che chi ha subito violenze possa capire perfettamente ciò di cui parlo. Ma in generale è la grandezza di una drammaturgia scritta sul mio corpo, potersi dare una tridimensionalità nell’opposizione profonda di varie direzioni: è una cosa che ha molto a che fare con la fisica per me”.

Di Grazia è un viaggio nelle ferite delle donne: quanto spazio ha conquistato la donna e quanto è realmente libera?
“Troppo poco! Basta il coronavirus a far capire quanto poco ci voglia per far regredire le donne al mero ruolo di madre e regina del focolare. Siamo pagate meno. Contiamo meno. È inutile negarlo. Potrei parlare ore ed ore. “Di Grazia” esprime un giusto punto di partenza come consapevolezza di uguaglianza e di rispetto dei diritti umani. La donna è sottoposta continuamente a molestie e spesso le ha introiettate culturalmente, è per questo che il femminismo o meglio il “femminile” farebbe molto bene agli uomini. Li spoglierebbe da questo patriarcato obsoleto che non sta portando a nulla di buono. Basta leggere le notizie di cronaca. L’uomo, essere umano di genere maschile, é in un momento storico molto delicato a mio avviso. A volte il potere si dà per scontato, si legge solo nelle forme più violente opprimenti e monopolizzanti. C’è altro. Bisogna andare oltre”.
Hai recentemente detto che ci vuole un diritto umano all’inclusione non a una guerra al mondo maschile.
“Credo fermamente che il femminile sia l’altra metà del mondo. Per secoli abbiamo avuto le lenti maschili, sarebbe bello provare degli altri occhiali ecco, per usare una metafora. Ovviamente non è una lotta al maschile ma una completa accettazione di una diversità che non ha ormai neppure a che fare col gender ma con i singoli individui. Ogni donna ogni uomo sono uguali e diversi per cultura colore razza estrazione sociale orientamento sessuale. Siamo molto indietro in Italia sull’uguaglianza sul posto di lavoro ad esempio, sulle pari opportunità, sulla meritocrazia. Ecco bisognerebbe avere il coraggio di inseguire una propria “verità” e lo dico forte perché la verità esiste ed è etica, e se c’è si vede, la verità si rispetta si cura si comprende. Il resto è pura politica interessi economici e nella migliore delle ipotesi vuota estetica”.

Roberta, sei calabrese, una donna del Sud, oggi vivi a Milano.
“Sì. Sento di avere un immaginario molto simile a quello di Alexandre. Sono una donna del Sud cresciuta con i racconti della sua nonna Filomena. Abbiamo sempre cantato nella mia famiglia e suonato anche. La nostra forza è la forza della terra; dalla pancia di una cornamusa che ti riporta in dei luoghi ancestrali e senza nome, dei luoghi interiori: le processioni, la Vergine Maria, la violenza dei nostri luoghi di origine. E poi, dall’altra parte, un’icona di donna combattiva, giovane e anziana nello stesso tempo; una giovane donna emancipata, forte, pronta a battersi per i suoi diritti, per la sua famiglia. Una sorte di proto-femminista, libera, politicizzata, di genere fluido, piena di sensualità”.