“Open Roads: New Italian Cinema” si conferma anche quest’anno l’unica serie di proiezioni che offre al pubblico nordamericano una gamma varia e ampia di film italiani contemporanei. L’edizione 2019 ospitata al Lincoln Center di New York colpisce ancora per un perfetto equilibrio tra talenti emergenti e veterani stimati, film commerciali e indipendenti, commedie oltraggiose, drammi avvincenti e documentari accattivanti, con la presenza in sala di molti dei registi.
Lunedì 10 è stato presentato il documentario “The disappearance of my mother” – La scomparsa di mia madre – del giovane Beniamino Barrese. Il film è un’intensa testimonianza su sua madre, la modella, giornalista e docente Benedetta Barzini. Per chi non lo ricordasse la Barzini è stata, a partire dagli anni sessanta, una modella con una carriera fenomenale. Prima top model italiana, fotografata dai più grandi, Irving Penn e Avedon per citarne alcuni, frequentatrice della Factory di Warhol e figura singolare dell’opinione pubblica, in quanto, oltre che icona di stile ed eleganza, una guerriera nella lotta agli stereotipi. Femminista militante, Marxista, anticonformista, la prova che dietro all’immagine di una modella e indossatrice può esistere un modello di pensiero critico coerente, intelligente, acuto.
Mamma Benedetta ha un sogno: quello di andare via, di “andare nel mondo contrario” a quello che ha vissuto fino ad ora. Vorrebbe lasciarsi tutto alle spalle e andare lontana, “partendo da qui e arrivando a nowhere”. Il figlio Beniamino esprime il desiderio di riprenderla prima della sua partenza, non solo per conservare il ricordo di sua madre, ma anche per celebrarlo, ammettendo di non sentirsi ancora pronto a lasciarla andare. Benedetta non vuole essere ripresa, non crede al valore delle immagini, alla fugacità della memoria, “non serve, non ci fa andare avanti”, ma accetta, perché non vuole provocare una ferita al figlio; preferisce ferire se stessa, andando contro ai principi per cui ha lottato una vita, dove si è sempre battuta contro l’apparenza.
Barrese ci offre il profilo di una donna ombrosa, senza cura per se stessa, i cui discorsi sono spesso interrotti dai colpi di tosse, dalle boccate date a una sigaretta, ma che quando parla ci lascia smarriti dal potere che ha la verità delle sue parole, da quanto avvolgano le cose di un senso illuminante inaspettato. Non ha bisogno di niente e di nessuno, Benedetta. Considera l’obiettivo della camera un nemico, una bugia, una minaccia: il suo aspetto è stato fotografato milioni di volte, ma nessuno ha mai potuto catturare la sua persona. “A me interessano le cose che non si vedono, non quelle che si vedono” – e non si vede bene che col cuore. Eppure quando è ripresa è disinvolta, sa come muoversi, sfilare, il suo corpo è abituato a costruire pose che ci restituiscono senza farcela rimpiangere l’intensità di quello sguardo profondo e imperturbabile sulla copertina di Vogue del ’64. Viene da pensare che fare la modella sia come andare in bici, un automatismo. Come automatico e normale è pensare che dopo una vita a fare quello che era necessario la Barzini si trovi in una fase della sua esistenza in cui ha la possibilità e il lusso di poter dire di no, di poter scegliere. Quante persone possono avere questo privilegio?
“Se sei una donna, chiunque tu sia e qualunque cosa tu faccia, il tuo ruolo primario nella vita è quello di fare la madre”. Ed è dopo essere stata anche madre che è arrivato il momento per lei di lasciare il suo Ben e non pensare più alle bollette da pagare, al benessere dei suoi figli, alle medicine, a cucinare qualcosa che poi alla fine non piacerà neanche a nessuno.
“Forse voglio solo morire?”, si chiede, la vecchiaia significa certamente morte, ma la fine che la aspetta non è un suicidio, è nella direzione di mondi sconosciuti, lontani quanto le nuvole, dove non esiste una lingua, ma si parla con gli occhi, “se ancora li avrò”. L’orizzonte diventa una meta da raggiungere, che sia su una barca per attraversare un mare con cui si trova in simbiosi, che la purifica e la trasforma in un’anima libera, o camminando in un bosco, dove può sotterrare il suo passato, liberandosi delle ultime tracce che farà avere di sé.
E Barrese, mentre conduce diversi casting per trovare un’attrice che possa interpretare il ruolo di sua madre (o inconsciamente sceglierla per sostituirla nel suo mondo immaginifico?), realizza che non c’è nessuna in grado di farlo, perché, come gli è stato insegnato, non si può “trasmettere” una persona, ognuno è unico con le proprie imperfezioni, con i propri “nei” e il fatto di essere unici e imperfetti è tutto ciò che di prezioso abbiamo. Ma perché allora l’imperfezione da così tanto fastidio? Una buona risposta è delegata al senso di potere che cerchiamo in ciò che appare perfetto, nonostante l’apparenza sia solo una percezione ingannevole dell’essere. L’unica certezza insolvibile è che mentre Benedetta non vuole avere niente a che fare con le immagini, per Beniamino sono tutto e probabilmente questo progetto ha dato inizio a una vera opera di separazione, più che di avvicinamento. L’unico modo per riavere indietro il loro rapporto è quello di chiudere la videocamera, rimanendo al buio, per potersi difendere, eliminando ogni filtro, uccidendo l’immortalità di quelle immagini, definendo che l’essenziale è invisibile agli occhi e agli obiettivi.

Dire che “La scomparsa di mia madre” sia un documentario su Benedetta Barzini è un’approssimazione banale. La modella non è la sola protagonista della storia, il fulcro narrativo non sono soltanto i suoi successi, i suoi premi, la sua popolarità. Semmai anche le sue debolezze, il suo desiderio di invisibilità, il suo tormento, che nessuno può comprendere, di vivere la fragilità di un mondo che non le appartiene, che non è suo, di cui disprezza la razza. Protagonista è la storia d’amore di un figlio per una madre e di una madre per un figlio e quello che colpisce è la profondità di questo sentimento, che il regista ci mostra attraverso i suoi occhi in modo amorevole, ma tumultuoso, intimo, ma assoluto. Beniamino non si risparmia, vuole mostrare e osservare sua madre in ogni situazione, come se non ci fosse un domani da aspettare e lei non mette da parte la rabbia quando lui la riprende anche mentre dorme, quasi in modo ossessivo.
Viviamo in una società da copertina, nell’era dell’homo-smartphone, del “cogli l’attimo”, dove non riusciamo più a riempire il vuoto abissale della conoscenza di sé e di ciò che si vuole dalla vita, ma vivendo di relazioni, l’apparenza è diventata oggi, purtroppo, una manifestazione necessaria, come a dire mangiamo cibo scadente, ma assicuriamoci di usare il servizio buono. A volte una fotografia racconta una storia, ma spesso ciò che vediamo davanti a noi è solo una bella immagine, come quella di un tramonto. Quando si è molto tristi si amano i tramonti. Esistono miliardi di foto di tramonti che sembrano tutti uguali, eppure non sono tutti uguali quando li guardiamo. “La scomparsa di mia madre” ci affida qualcosa di più dei colori di un astro che scompare all’orizzonte. Il sole tramonta sempre e comunque, mentre non è scontato il potere delicato, unico, affascinante di questa storia, che un regista così giovane ha saputo sviluppare con equilibrio e una tale consapevolezza da lasciare una traccia riconoscibile.

Non è solo bravo Barrese, quando lo si incontra si percepisce subito la generosità di una persona curiosa, educata, incline all’empatia e ha gentilmente riposto per noi ad alcune domande.
Quanto c’è di programmato e condiviso nel tuo film? Tua madre ha cercato di essere se stessa o a volte è caduta nella trappola di interpretare un personaggio?
“C’è poco di condiviso. Cercavo di inserirmi nella sua vita solo osservandola, provando a rubare il più possibile dal suo privato, per cui i momenti di collaborazione sono stati limitati. Penso che essendo una modella fosse abituata alla camera, ne avesse consapevolezza, senza dover per forza costringersi ad interpretare un ruolo”.
Quanto girato hai prodotto?
“Tanto, ma non tantissimo, perché mia madre non mi permetteva di girare. All’inizio il film doveva essere solo sulle sue lezioni universitarie e sul rapporto con gli studenti, anche perché era l’unica cosa che mi aveva permesso di seguire, ma poi ho sentito la necessità di realizzare un racconto sulla sua vita. Ho cambiato idea quando ho capito che avevo paura di questo suo desiderio di scomparire e volevo quindi inserire una storia sviluppata su questa urgenza, dando priorità al suo presente più che al suo passato, sicuramente funzionale per capire chi è oggi. Da lì ho iniziato a sapere quello che stavo cercando e mi sono orientato maggiormente su alcune scelte rispetto che su altre, anche se il film vero e proprio si è fatto in fase di montaggio, un lavoro a cui abbiamo speso nove mesi. Durante il montaggio devi rinunciare ad alcune cose per dare valore ad altre. Non ha senso mettere solo cose belle, ma scegliere è importante per seguire un percorso, una direzione. Per esempio dicono che mia mamma sembrasse molto più scura di come è realmente, ma è stata una scelta precisa, derivata dall’eliminazione di altri aspetti”.

C’e stato un momento in cui hai pensato che quello che stavi facendo era troppo invasivo?
“Sì, sicuramente quando l’ho ripresa mentre dormiva e lei si è arrabbiata tantissimo. Eravamo a Londra e mi ha lasciato solo in albergo. Ho avuto paura che non l’avrei più ritrovata. I conflitti sono stati tanti, ma ho sempre capito che la sua fosse una rabbia legittima. I peggiori momenti di urla e litigi non li ho ripresi, ma non per questo ho deciso di smettere perché comunque mi sembrava giusto continuare questo progetto in cui credevo”.
Come ha reagito quando ha visto il film?
“Ha avuto una reazione molto critica, non emotiva. Ha fatto delle osservazioni, tipo di dare maggiormente l’idea di come fosse famosa all’epoca, per poter dare più risalto a cosa significhi oggi la sua opinione sull’immagine. Ha detto “non sono quella li, ma mi sta simpatica”.
Come mai la scelta di dare un’immagine di tua mamma da donna indipendente e forte, ma anche di persona sola con le sua fragilità, che sembra non avere il supporto di nessuno?
“Perché è così, purtroppo. La sua solitudine lei l’ha scelta. E anche perché già era stato difficile convincere lei, sarebbe stato troppo dover convincere tutta la famiglia a partecipare alle riprese”.
Qual è il rapporto con tua madre a telecamera spenta?
“Ottimo, ci confrontiamo su tantissime cose. Mentre prima ero solo io a chiederle consigli perché la vedevo con rispetto e stima ora anche lei chiede spesso il mio parere”.
Come è stato avere una madre cosi importante nella tua vita, non solo in senso di popolarità, ma proprio con una personalità molto forte?
“Molto faticoso, ma anche motivo di orgoglio. Sono cresciuto nel contesto tipico della borghesia milanese e quando mi veniva a prendere a scuola lei sembrava una selvaggia, vestita in maniera improbabile, con una macchina sfasciata, più anziana delle altre mamme. Sembrava venisse da un altro mondo. Anche la sua fama è stata un peso, ho sperato fino a 15 anni di essere un ragazzo come gli altri, quasi invisibile, ma poi è diventato motivo d’orgoglio, perché ho capito che possedevo la ricchezza di avere una persona che mi suggeriva una prospettiva diversa sulle cose. Il conformismo è una forza fortissima; o, come dice lei, abbandoni tutto o l’unico modo per sopravvivere è conformarsi a tutte queste regole, per cui è difficile essere critici”.
Cosa volevi fare da piccolo?
“Raccontare delle storie. Guardo film da quando sono minuscolo e sin da piccolo andavo al cinema a vedere film non adatti a me, ma da cui sono sempre stato attratto. Ho sempre vissuto il cinema come fosse qualcosa di inarrivabile, come la luna, perché lo consideravo più uno sfondo interiore su cui proiettare i propri sogni, la propria ricerca”.
Quanto c’e di Benedetta in Beniamino?
“Tanto, ma purtroppo non ho ereditato tutte le sue belle caratteristiche morali, tipo la sua rettitudine. Lei ha una capacità di essere fortissima. Io sono molto confusionario, le mie debolezze mi fanno cascare in tante trappole, sono più attratto da cose che lei non ha mai voluto. Sono più un piccolo borghese, come mi dice nel film, mentre la sua mente è rimasta la stessa, lucidissima, con gli stessi principi di quando era ragazza. Mi fa sempre commuovere la scena di quando nel film mi chiede se mi spiace che lei se ne voglia andare e io dico sì, ma che è una cosa che voglio perché fa piacere a lei e lei mi risponde “sai quante persone possono permettersi questo lusso?”.
Il film, nominato ai globi d’oro, ottimo successo ai festival di tutto il mondo, unica pellicola italiana al Sundance Film Festival, è una produzione NANOF insieme a RAI CINEMA, in collaborazione con RYOT FILMS ed è prodotto da Filippo Macelloni. Verrà distribuito nelle sale in autunno, tenetevi pronti a veder brillare questa gemma. Il consiglio ovviamente è quello di non perderselo.