L’Istituto Italiano di Cultura di New York ha presentato venerdì, al Museum of the Moving Image, la proiezione del film “Baikonur, Earth”, di Andrea Sorini, in occasione del Panorama Europe 2019, festival del nuovo cinema europeo giunto alla sua undicesima edizione, co-presentato anche dal National Institutes for Culture dell’UE.
La rassegna, in programmazione dal 3 al 19 maggio, ha portato all’attenzione del pubblico film eccezionali di alcuni dei più interessanti registi europei emergenti. E sicuramente notevole è il talento di Sorini, che oltre ad avere una straordinaria maturità registica, nonostante la sua giovane età, è anche sceneggiatore del film, insieme a Eliseo Acanfora.
Sorini, nato a Milano nel 1988, cresce a Bologna e dopo il liceo approda a Roma, dove si diploma in regia all’ACT e al Centro Sperimentale di Cinematografia. “Baikonur, Earth”, prodotto da Lumen Films, The Piranesi Experience e Rai Cinema, in partnership con Il Saggiatore, è il suo primo documentario, nonché la sua prima esperienza da regista, una prova decisamente superata anche a livello internazionale. Il film, infatti, oltre che essere stato presentato al Festival del Cinema di Vancouver, dove ha ricevuto una risposta molto positiva di critica e pubblico, ha vinto il primo premio nella sezione Prospettive del Filmaker Festival di Milano.
E affascinante il documentario di Sorini visto a New York, un film contemplativo, che incuriosisce, che ipnotizza. Nonostante non ci sia un racconto narrativo classico, la potenza delle immagini e dei suoni hanno un forte impatto sulla qualità e sulla capacità di catturare l’attenzione dello spettatore, dandogli accesso visivo ed emotivo ad atmosfere fantastiche e surreali. Il Cosmodromo di Baikonur, da cui è tratto il titolo, è la più vecchia e utilizzata base di lancio del mondo. Fu costruito dall’Unione Sovietica per il lancio di Sputnik negli anni Cinquanta e ora è sotto amministrazione russa, nonostante geograficamente si trovi in una remota parte del deserto del Kazakistan. Le immagini descrivono una realtà così desolante che i personaggi presenti assumono un’entità onirica quasi fine a se stessa, che serve solo ad animare un luogo senza vita. Mucche e cammelli vagano in un contesto di assenza e perfino un cane che abbaia diventa l’eco incerto di una città spettrale e deserta, dove il vento soffia senza che ci sia qualcuno ad ascoltarlo. Ma se non c’è nessuno che lo dimostri il vento può esistere lo stesso? La risposta è nell’attesa di un’occasione che si aspetta, nelle nature morte, nella fotografia disarmante di un mondo irreale, tra le note di una canzone stonata a un karaoke.
Le inquadrature non hanno fretta di raccontare, si preparano con precisione per rivelarsi ed esplorare nuovi orizzonti, nuovi spicchi di luna, scandiscono il tempo in un countdown ricco di contrasti: tra il cemento dei palazzi e la natura di paesaggi disabitati, tra il blu degli ambienti interni soffocanti e malinconici e quello del cielo, in cui non c’è soltanto un sole che tramonta, ma anche uno che sorge. Se, come in una lenta processione, il passaggio di una navicella spaziale è l’ombra della speranza di trovare un mondo altro, il sogno di quel mondo possibile è affidato agli astronauti, attraverso immagini che traducono in metacinema l’idea irresistibile di raccontarsi e rendono anche noi pubblico protagonisti spettatori. E proprio quando tutto è pronto per il lancio, con la benedizione di Dio, chi assiste all’evento applaude chi sta abbandonando quel luogo certamente vuoto, come un binario interrotto, per andare a cercarne un altro certamente sconosciuto, lasciando una scia che squarcia il cielo in due e che ci colpisce con mille interrogativi.

Che messaggio ci ha affidato quel luogo così lontano dal resto del mondo? E’ davvero cambiato qualcosa in quel paesaggio di nostalgia che è la nostra esistenza? O tutto scorre e ricomincia come prima, come il loop di un film già visto? Nella nostre vite c’è più terra o più cielo? I nostri spazi sono più vuoti o più pieni? Siamo così vicini all’Universo che le risposte si possono trovare solo nel tempo di chi si ferma a riflettere, nascoste negli istanti del viaggio che ognuno vorrà affrontare e inevitabilmente legate al futuro delle nostre scelte.
La Voce ha intervistato il regista Andrea Sorini.
E’ la tua prima volta a New York? Che impressione ti fa?
“E’ la mia prima volta da adulto e passeggiando per strada trovo che sia una città incredibile, leggendaria, che mi sembra di conoscere già grazie al cinema e per quanto sia iconica in ogni aspetto. E’ inoltre una vetrina molto importante”.
Come è seguire un film da regista?
“Ti mette una certa pressione addosso, soprattutto quando lavori a un progetto non così semplice, anche da un punto di vista logistico, dei trasporti, in un altro Paese, con un’altra lingua e con un budget limitato. Una volta iniziate le riprese però la paura è svanita, anche perché il soggetto, di cui ero innamorato, mi ha stimolato molto a lavorare a livello creativo”.
Come si sono svolte le riprese?
“Per arrivare sul luogo, abbiamo preso due aerei e il resto del viaggio l’abbiamo fatto in macchina, stando in diversi hotel. Le autorità locali erano piuttosto diffidenti all’inizio e abbiamo dovuto dividere le riprese in due periodi, a distanza di molti mesi, per motivi di permessi. La cosa positiva è che tra la prima e la seconda volta c’è stato tempo per assimilare ed elaborare il più del materiale”.
Il film ha uno stile documentaristico e fantascientifico, giusto?
“Sì, segue un andamento più da viaggio, in una cornice un po’ fantastica che inizia con l’atterraggio di una specie di sonda, come se stessimo esplorando un pianeta sconosciuto. C’è sicuramente un legame con la science fiction e infatti questo linguaggio prende spunto dal cinema di finzione, le musiche e gli stessi suoni si accostano a un mondo tipico della fantascienza”.

E a chi ti sei ispirato per questo?
“I miei modelli fanno riferimento soprattutto al cinema e alla letteratura di fantascienza russa, in particolare Tarkovsy, che ha scritto e diretto film come Stalker e Solaris tra i più noti e Lopushansky, che, nel film “A visitor to a Museum”, ha utilizzato zone abbandonate della Russia per raccontare una storia di fantascienza. Anche Guerre Stellari ha contribuito nella scrittura del film per la presenza di abitanti in paesaggi desertici insieme ad astronavi e situazioni spaziali. A dire il vero però l’ispirazione maggiore è arrivata dalla fotografia: lo stile visivo, infatti, ha un forte legame con il carattere sognante delle immagini di Luigi Ghirri, nelle cui opere c’è una forte relazione tra fiction e realtà”.
Hai aspettative particolari dal pubblico? Che messaggio vuoi trasmettere con il tuo film?
“Non c’è un messaggio specifico che abbiamo voluto dare. Penso che ognuno possa trovare il suo. E’ più un’esperienza che abbiamo cercato di creare attraverso i contrasti visuali delle immagini, riprese in paesaggi che sembrano desolati, i suoni e le diverse atmosfere metafisiche”.
Altri progetti in cantiere?
“Stiamo lavorando a una serie di documentari diversi da questo, la cui esigenza è di dare uno stile più narrativo, più focalizzato su protagonisti umani che di paesaggio e a un film di finzione piuttosto complesso, sempre in collaborazione con Il Saggiatore”.
Un’ultima domanda. Il film descrive paesaggi invivibili, come se fosse ambientato un po’ in un mondo post-apocalittico e si parla inoltre di colonizzare altri pianeti. Pensi che il nostro futuro sia sulla Terra o da qualche altra parte nell’Universo?
“E’ una domanda troppo grande, non lo so sinceramente. Penso che gli scienziati debbano rispondere a un quesito del genere. Sicuramente è un punto di vista molto affascinante quello di colonizzare altri pianeti e forse nel futuro sarà anche molto utile”.