La lista dei premi vinti dal film Dogman, di Matteo Garrone, è troppo lunga per essere stilata fedelmente: svariati David di Donatello e Nastri d’argento, premi a Cannes, applausi lunghi e recensioni positive sia in Italia che all’estero.
La buona notizia, per chi vive a New York, è che il Lincoln Center, sulla 65esima, lo proietta fino a giovedì 18 aprile, e il Film Forum nel West Village lo avrà in calendario fino al 25 aprile.
Le ragioni per andare a vederlo sono tante: Garrone torna al noir e ai personaggi inquietanti e dai lavori inusuali degli anni de “L’imbalsamatore”, la storia è raccontata con maestria e un crescendo di emozioni, Marcello Fonte e Valerio Pesce sono attori straordinari…
Una ragione, o due, per non andare a vederlo: il film non è rilassante, il film non è allegro, il film non si dimentica né il giorno dopo, né una settimana dopo… non basta un mese e un anno neppure.
La storia di Dogman prende spunto (ma se ne distacca anche), da un fatto vero di cronaca vecchio di trent’anni: il “delitto del Canaro”, che vede coinvolti un pugile dilettante e un uomo che ha un negozio di toelettatura per cani.
La narrazione tocca questi due personaggi che coesistono in una società fatta di vicini di casa o di negozio che sono gli stessi del calcetto, dove le scene dal cielo terso e l’atmosfera di pace e convivialità sono rarissime.
Il terreno della storia è un raggio di un chilometro che va dal mare ai palazzoni fatiscenti della periferia mal tenuta, c’è il negozio “Dogman- Lavaggio Cani”, il suo vicino Francesco, “Vendo Oro”, il casinò “Portoricano” e poco altro da fare o da comprare.
Questo scenario apocalittico del background, è un quartiere con un parchetto giochi per bambini nel suo centro, due scivoli con un’altalena, e una cornice di case con l’intonaco che cade a pezzi…
La fotografia del film, di Nicolaj Bruel, è piena di sentimenti e stati d’animo, vive nelle piogge, nelle notti, nei toni di grigio della periferia degradata e contribuisce al climax prima di angoscia e poi di violenza (lo avevamo detto, il film non è allegro).
Simone e Marcello sono due “inetti” di questa società, seppure ognuno a proprio modo; entrambi fanno fatica ad integrarsi e resteranno senza amici, per poi lottare, in una scena finale violenta, ad armi pari, come fossero tutti e due ‘animali’ in un negozio di animali.
È impossibile staccare lo sguardo da Marcello, il co-protagonista “più protagonista”, lui è il re di ogni scena e si prende tutta la nostra attenzione. Di Marcello vogliamo indovinare cosa sta pensando, cosa farà dopo, se ne uscirà vivo o no.
Se Simone è il ‘loose cannon’, come dice la traduzione della versione sottotitolata del film, Marcello è il sottomesso, il debole che non reagisce.
Il suo tono di voce ha un timbro da ‘assoggettato’, è lo stesso che usa con i cani che ama tanto, e con sua figlia. Nemmeno il suo accento convince, non e’ romano come quello degli altri, lui e’ un outsider, un uomo disadattato.
“Mi vogliono tutti bene nel quartiere e ci tengo” dice Marcello ad un certo punto, quando fa capolino per un momento l’ideale dell’ostrica dei Malavoglia, ma un attimo dopo il suo sguardo è più lungo del solito, e rivolto al mare… ed è allora che cominciano le sorprese.
“Guarda Jack, un altro cane abbiamo portato” dice Marcello, all’inizio dell’escalation della violenza e della tristezza. Gli amici che c’erano non ci sono più e al loro posto resta solo lo stesso quartiere degradato, il setting di questo ‘western urbano’.