
Si può ancora danzare magnificamente a quasi 56 anni (saranno compiuti il prossimo 6 maggio)? Alessandra Ferri, in Woolf Works, balletto dell’inglese Wayne McGregor, un trionfo al Teatro alla Scala ancora in corso, prova che si, è possibile. A New York gli amanti della danza se ne saranno accorti quando, l’anno scorso, questa ex-star dell’American Ballet Theatre è tornata al Metropolitan in Afterite, ancora di McGregor, e nel 2015 ha debuttato in Chéri di Martha Clarke. Tuttavia, nei panni di Virginia Woolf, l’artista, lontana dalla danza dal 2007 al 2012, ha superato se stessa guadagnando, sempre nel 2015, ma a Londra, con il Royal Ballet, il suo secondo Oliver Award per “Outstanding Achievement in Dance”.
Apparentemente fragile e invece fortissima anche nella danza spesso spericolata e sempre sulle punte di McGregor, la Ferri è protagonista in due delle tre parti di cui consta il balletto. La prima, parte, dal titolo I Now, I Then , si apre con l’unica registrazione esistente della voce della Woolf, archiviata nel 1937 dalla BBC e dedicata al saggio On Craftsmanship . Le parole sono ben scandite : «…How can we combine the old words in new orders so they survive, so they create beauty, so that they tell the truth? That is the question.» (Come possiamo combinare le vecchie parole in nuovi ordini così che sopravvivano, così che creino bellezza, così che dicano la verità? Questo è il punto).
Sono riflessioni che sembrano anticipare le novità linguistiche, per lo più neo-accademiche, della coreografia. In I Now, I Then, la Ferri è Clarissa, la protagonista di Mrs.Dalloway: si muove austera in un elegante abituccio marrone anni Trenta (i costumi sono di Moritz Junge), quasi guardinga, in una scena composta di enormi cornici lentamente mobili e incrociate, ma anche di proiezioni di Londra (vie, giardini, scorci di case, a cura del film designer Ravi Deepres), che su queste stesse cornici si spalmano creando l’effetto di un dentro-fuori le mura di un’ipotetica casa.

©Tristram Kenton
Nel romanzo Mrs Dalloway, che si svolge nel corso di un’unica giornata, l’agiata e ormai matura signora Dalloway, dovrebbe allestire un festoso party e invece qui rivive le figure amate e perdute del suo passato, in un flusso di coscienza dal movimento quasi narrativo. Così ecco Septimus (il bravissimo Timofej Andrijashenko), veterano di guerra, tanto traumatizzato dalla violenza subita da scegliere il suicidio; ecco Clarissa da giovane (Caterina Bianchi, una rivelazione per il Balletto della Scala) con gli amici Sally (Agnese Di Clemente) e Peter (interpretato dall’infallibile “Guest Artist” Federico Bonelli, Principal Dancer del Royal Ballet) e pure Evens (Claudio Coviello) che gira sempre nello spazio, più l’affascinante Rezia (Martina Arduino). Spesso Clarissa/Ferri li spia, restando immobile, seminascosta contro una delle cornici, ma vibrante, rendendo così molto chiaro il suo frugare nel passato, come in un flashback al quale lei, dolorosamente, non può più prendere parte.
Il coreografo ha aggiunto ai personaggi della memoria di Mrs Dalloway anche frammenti della biografia della Woolf. Così Clarissa/Ferri non solo si dispera nel rammentare la morte di Septimus in uno dei momenti più drammatici di I Now, I Then, ma si sorprende a baciare la bella Sally, in ricordo dell’amore temporaneamente nutrito per la pittrice Vita Sackville-West. Assente in Becomings, seconda parte del balletto ispirato a Orlando (tra l’altro dedicato dalla Woolf proprio alla Sackville-West al termine del loro legame), la Ferri lascia posto agli artisti del Balletto della Scala, quasi tutti in sontuosi abiti secenteschi e completamente rapiti e concentrati nel linguaggio di McGregor, assimilato con entusiasmo: una danza tutta rotazioni, incontri, salti, apparizioni e dissolvenze.
Nonostante la bellezza delle luci magiche di Lucy Carter, che nell’alto del cielo teatrale formano persino un caleidoscopio di colori arcobaleno e l’intreccio intermittente di raggi laser, Becomings è forse la parte meno riuscita del balletto. Si percepisce nel movimento concitato e continuo una proiezione nel futuro, ma nessuno dei danzatori è quel personaggio che, attraversando tre secoli senza mai invecchiare e cambiando continuamente sesso, è davvero Orlando. La scelta è naturalmente voluta, ma rende giustizia solo ai bellissimi costumi dorati con gorgiere, corpetti o pantaloni bronzei sulle tute aderenti unisex, e alla danza, a parti del corpo slanciate, piegate, contratte, aperte che saettano sulla musica generica e in qualche modo noiosa di Max Richter e sulle sue variazioni strumentali ed elettroniche che comunque elaborano il tema antico della “Follia” nel senso barocco del termine. Una figurina (l’ottima Nicoletta Manni) con la sua danza aggraziata e morbida, il suo dondolio pudico e malizioso, elargisce la sua femminea grazia quando Orlando è diventato donna. Tuttavia, l’essenza del romanzo, così ben delineata nell’eponimo film di Sally Potter (1992), è assente.
Dopo un breve intervallo – ogni sezione del balletto ne ha uno – Alessandra Ferri ritorna in scena sull’ipotetica spiaggia di Tuesday da The Waves, l’ultimo e più complesso romanzo della Woolf. All’inizio un piccolo drappello di bambini giocano sereni, intrecciandosi in ludiche catene (sono i bravi allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala). Mentre l’intensa lettera d’amore inviata al marito (qui Federico Bonelli) prima del suicido (voce registrata all’inizio di questa terza parte), risuona ancora nel basso continuo, quasi melodico, diretto da Koen Kessels, il direttore d’orchestra che già portò al trionfo Woolf Works al Covent Garden. La lettera, scandita da una voce femminile fuori campo, ha parole commoventi: «Carissimo, l’unica persona che mi è sempre stata accanto e che potrebbe salvarmi saresti tu, ma sono certa di stare impazzendo di nuovo … Non posso più combattere.» In un costume nero e trasparente, Alessandra/Virginia si avvinghia in un disperato pas de deux di addio al marito/Bonelli a petto nudo.
Ancora una volta la star mostra la sua impeccabile tecnica accademica, accresciuta dal forte sostegno di Bonelli, mentre altre potenti figure del Balletto scaligero come Virna Toppi aprono i loro corpi, svelano e raddoppiano il suo dolore e l’insieme dei ballerini, in nero, quasi immobili, paiono personificazioni di un aldilà già alle porte. Infatti la malattia psichica di cui la Woolf soffriva sin da giovane, ha la meglio anche in Tuesday. Poco alla volta Ferri/Virginia si distacca da tutto ciò che la circonda, attirata solo dalle onde in proiezione, che si infrangono laggiù sul fondale con un ritmo più che regolare: one, two, one, two… Quella sua camminata verso la morte, al pari della sua prima apparizione, esprime tutta la sua nuova forza interiore e la sua accresciuta potenza espressiva. Grandezza di un’esemplare tragédienne che di sicuro rivedremo ancora sulle scene della danza.

©Tristram Kenton
Dopo 35 anni trascorsi nell’elettrizzante New York, Alessandra, detta Alex, è tornata a vivere, l’anno scorso, a Londra, per respirare, ha precisato, “aria d’Europa”. La sua vicinanza al Royal Ballet, la compagnia in cui è cresciuta, dapprima nella sua autorevole Scuola e poi in compagnia, beniamina di Kenneth McMillan e di altri coreografi non solo inglesi, la porterà di sicuro ad unirsi di nuovo al quarantanovenne Wayne McGregor, coreografo dalla fama ormai internazionale, divenuto, nel 2006, residente nella compagnia del Covent Garden e pluripremiato anche per Woof Works. Su questo balletto, che non avrebbe potuto nascere senza una figura drammaturgicamente imponente come quella della Ferri, ma creato anche per rendere omaggio ai dieci anni di lavoro di McGregor al Royal Ballet, Alessandra elargisce parole di lode: “ Woolf Works mi ha cambiato la vita e mi ha catapultato in quello che oggi è il mondo della danza contemporanea. Wayne McGregor parla ai giovani e in pochi anni ha cambiato il pubblico del Royal Ballet, ampliandolo e ringiovanendolo, appunto. Per me esiste ormai un prima e un dopo McGregor. Questo coreografo mi ha dimostrato come tutti noi, ballerini e non ballerini, possiamo evolvere lasciando andare il passato pur portandolo sempre dentro di noi”.
Quanto al Balletto della Scala, reduce dal successo dello schubertiano Winterreise del franco-albanese Angelin Preljocaj, Woolf Works è stato un’immersione più che gradita dai ballerini in una danza ormai del tutto odierna, senza dimenticare la loro collaborazione, nel giugno 2006, con lo stesso McGregor alla Scala, allora regista e coreografo di una Dido and Aeneas di Henry Purcell. Soprattutto i danzatori ne hanno compreso il vorticoso e travolgente valore dinamico, mentre dalla Ferri hanno di sicuro imparato che velocità, tensione muscolare, gambe elevate sino alla punta dei capelli, non bastano a creare un ballerino o una ballerina memorabili. La passione per il dinamismo, così tipica del nostro tempo ballettistico, va unita a spessore drammatico, e a questo si giunge non solo con un febbricitante e indefesso lavoro fisico, ma anche con il sentimento personale, la cultura, e la forza, sempre da coltivare, della propria interiorità.