Il 29 ottobre alla Casa Italiana di New York University è stato presentato un nuovo film italiano, La terra buona di Emanuele Caruso. Si è trattato di una delle prime proiezioni all’estero dopo l’uscita in Italia a marzo; l’evento ha attirato più di duecento persone. Il film descrive un’Italia al bivio: è sempre un luogo di bellezza, capace di ispirare e coinvolgere sia italiani che stranieri; ma è ancora consapevole del suo proprio valore e in grado di promuoverlo?
Il film mette in scena l’incontro, mai avvenuto nella realtà, fra tre persone realmente conosciute dal regista: un monaco benedettino, padre Sergio, che aveva vissuto in solitudine per quarant’anni accumulando una biblioteca enorme (mostrata nel film), del quale non si sa più nulla da quattro anni; Gea, una giovane donna con un cancro incurabile; e Mastro (il cui nome reale è Giuseppe Zora), un ricercatore costretto ad andarsene dall’Italia a causa del suo approccio poco convenzionale alla ricerca sul cancro. I tre personaggi si incontrano sul monte Paradiso nel Parco Nazionale della Val Grande in Piemonte, la zona selvaggia più grande d’Europa; ciascuno di loro ha abbandonato qualcosa (la società in generale, una diagnosi di tumore, e il suo paese) ma ora sta cercando di ridare senso alla propria vita. Questa è la ragione per cui Caruso li sceglie come protagonisti – tutti e tre possiedono una dimensione spirituale che provoca più domande che risposte.
Caruso segue una classica struttura cinematografica: i personaggi sono presentati mentre la trama evolve lentamente, fino alla crisi; il resto del film si svolge intorno alla crisi e la sua eventuale risoluzione. La serietà dell’argomento viene attenuata da molti spunti umoristici e vengono utilizzati anche certi clichés italiani, come per esempio gli atteggiamenti meschini dei paesani e lo scetticismo sarcastico di un giovane romano verso la natura.
Ma La terra buona mostra un livello di genuinità difficile da trovare in altri film recenti. Parte della ragione è pratica: come Caruso ha accennato nella discussione seguita alla proiezione, il film ha dovuto cavarsela con un budget incredibilmente basso: meno di 200mila euro (invece dei due milioni che sarebbero stati necessari). Quasi la metà di questa somma è stata raccolta attraverso “produzionidalbasso”, una piattaforma italiana di crowdfunding nella quale i donatori assomigliano più a investitori e ricevono una quota dei profitti del botteghino quando il film viene rilasciato, eventualmente recuperando i soldi versati. A causa del suo successo inaspettato il film è stato definito un “piccolo miracolo italiano”.
Il budget limitato ha provocato il confronto, sempre durante la discussione, fra l’opera di Caruso e quelle dei registi neorealisti (con riferimento alla mostra in corso alla Casa Italiana sul neorealismo); perché i film prodotti in quel periodo in Italia, raramente si servivano di mezzi tecnologici sofisticati e spesso erano girati sul posto con attori non professionisti. Questo livello di “autenticità” è mantenuto nell’opera di Caruso, o intenzionalmente o per necessità. Come ha spiegato alla Casa Italiana, ha potuto lavorare solo con attori che si erano “sposati col film”, ed erano disposti a passare due mesi in montagna per completare la storia e pur ricevendo un compenso molto basso. Per motivi analoghi solo tre lampade sono state usate durante le riprese e la troupe ha quasi sempre fatto affidamento sulla luce naturale.
A un certo punto nel film compare un improbabile oggetto volante costituito da un furgoncino, dotato di elica e paracadute: Caruso ci ha spiegato che questa macchina esiste davvero e che può veramente volare. L’ha trovata su YouTube e i suoi inventori, italiani anche loro, l’hanno portata sul set e hanno lasciato che fosse usata. Altrimenti la troupe non avrebbe potuto permettersi di crearla grazie agli effetti speciali. Paradossalmente, questa situazione fa pensare al Gattopardo, nel quale Visconti pretese che ognuno dei candelabri usati nella scena del ballo fosse un pezzo d’epoca, per affermare un’autenticità che a quel punto era un puro principio, al di là delle capacità percettive del pubblico. Caruso forse non condivide una filosofia così rigida, però il suo film riflette questa genuinità di materiali e ambientazione.
Da un certo punto di vista, il film potrebbe definirsi una celebrazione della capacità italiana di aggregare comunità. Sullo schermo i personaggi creano legami forti fra loro malgrado marcate differenze e senza la presenza di internet; fuori dallo schermo, il progetto è stato finanziato dal basso e, in più, i sessanta paesani di Capraga, l’ultimo villaggio prima della Val Grande, hanno lasciato le loro case per due mesi permettendo agli attori e la troupe di alloggiarvi gratuitamente.
Ma basta la generosità di una simile comunità a compensare il fatto che nessun produttore e istituzione italiana abbia “creduto in questo progetto”, come Caruso ha lamentato? Il dottor Zora dovette emigrare in Svizzera per continuare la sua ricerca e Caruso ha deciso di realizzare il suo prossimo progetto all’estero a causa delle difficoltà di produrre opere del genere in Italia. Ci sono voluti otto anni per completare La terra buona, fra la scrittura del copione, l’organizzazione e le riprese, in gran parte a causa della continua necessità di trovare finanziamenti. Recentemente HBO ha comprato il film e Caruso giustamente lo considera un auspicio positivo per i suoi futuri progetti.
È arrivato il momento per l’Italia di chiedersi se vuole produrre cultura o semplicemente rimanere uno sfondo o una cornice per le produzioni culturali di altri paesi. Chiamami col tuo nome (Call Me by Your Name), un successo globale, ha capitalizzato sulla bellezza del paesaggio italiano, però era una produzione internazionale e costosa. La terra buona mostra splendide immagini del nostro ambiente naturale, e alcune più intime della sua gente. A progetti indipendenti come questo, però, serve qualcosa di più della dedizione degli attori e dell’autenticità dell’ambiente. Serve un’imprenditorialità culturale, capace di accettare qualche rischio e soprattutto di credere che valga la pena rischiare per perpetuare e diffondere la bellezza che ci circonda.