Il biopic musicale, questo doloroso esercizio di celebrazione di un mito e della sua trasposizione su uno schermo. Ci sono passati i Doors, Johnny Cash, Frankie Valli e i suoi Jersey Boys, Edith Piaf, con alterne fortune a prescindere dai nomi sfoggiati dietro e davanti la macchina da presa. Nel 2018, a 27 anni dalla morte di Freddie Mercury, probabilmente la più grande icona pop del ventesimo secolo, è toccato ai Queen, dopo una tormentata gestazione del progetto durata 8 anni. “Bohemian Rhapsody”, diretto da Brian Singer (The Usual Suspects), poi licenziato quasi in dirittura d’arrivo per far posto al non accreditato Dexter Fletcher, sarà nelle sale americane il 2 novembre 2018. In Europa, la 20th Century Fox lo ha mostrato in anteprima mondiale il 23 ottobre, in vari cinema del vecchio continente. Noi eravamo lì, ad attendere con una certa trepidazione, con la curiosità di chi è iscritto al Queen Fan Club da oltre 20 anni, di chi sa a memoria almeno l’80% delle canzoni dei Queen, dei singoli repertori individuali, e buona parte delle loro biografie. Premessa autoreferenziale ma doverosa, per leggere quanto segue.
I Queen hanno venduto oltre 300 milioni di dischi nel mondo. Le loro canzoni, pensate spesso come inni pop o come rock à la carte, hanno assunto un grado di immortalità vicino a quelle dei Beatles. I concerti che tuttora i 70enni Brian May (lead guitar) e Roger Taylor (drums) tengono con il bravo Adam Lambert alla voce, sono stati un successo planetario. Freddie Mercury, morto il 24 novembre 1991 per una broncopolmonite legata all’Aids, è considerato quasi all’unanimità tra i più grandi frontman della storia della musica. È stato celebrato meno in vita che post mortem: il concertone del Freddie Mercury’s Tribute è stato secondo per roster di musicisti solo al Live Aid, e, nel tempo, l’idolatria verso il cantante è diventato uno di quei rari moti emotivi di massa magicamente non toccati dal passare degli anni. “Bohemian Rhapsody”, quindi, è un film su un mito globale. Il mito della Regina e il mito dell’Icaro Mercury, morto giovane dopo aver stregato il mondo col suo talento.
Purtroppo il mito viene umanizzato goffamente, con tratti caricaturali, restando una specie di wikipedia dei Queen, dal 1973 al 1986, con qualche trovata piccante, un paio di battute e tonnellate di moralismo. Lo script è una lunga bugia superficiale, e va notato che Brian May e Roger Taylor lo hanno vidimato e prodotto. I due Queen superstiti, che pure hanno lavorato splendidamente alla colonna sonora, hanno ispirato e seguito la lavorazione del film molto da vicino, frullando malamente la storia della Regina e riducendola a quello di un gruppo di nerd e potenziali emarginati, per giunta poco interessanti. Nel film le loro storie individuali sono ridotte a quelle di sparring partner senza peccato di una personalità ciclopica. L’ingombrante, usurante figura di un tossico egocentrico ed egoista, una persona senza freni e con un senso dubbio della morale chiamato Farookh Bulsara, in arte Freddie Mercury. Questo è il Freddie che “Bohemian Rhapsody” ci restituisce, artificiosamente.
Gli eventi della storia dei Queen vengono retrodatati o postdatati a seconda delle esigenze del copione, per riscrivere strumentalmente la vicenda di Freddie Mercury. Viene addirittura proiettata nel futuro “We will Rock you”, che è del 1977 e che nel film viene palesemente concepita dopo il 1980. Il più seguito concerto della storia del rock fino ad allora, Rock in Rio, leggendaria esibizione dei Queen del 1985, viene ambientata in un giorno a caso, negli anni ’70. E viene completamente stravolta la realtà intorno alla malattia di Freddie: in “Bohemian” il cantante annuncia la sua malattia alla band un paio d’anni prima che nella realtà, alla vigilia del Live Aid, perché la sceneggiatura è talmente debole da avere bisogno che Freddie sia malato quando sale sul palco.
Paradossale anche come venga inventato l’incontro tra Freddie Mercury e Jim Hutton, l’uomo che diventerà il suo compagno fino alla morte: nel film Jim è un cameriere ad un party di Freddie nella casa di Logan Place a Londra, nella realtà si sono incontrati in una discoteca gay e Jim Hutton non aveva idea di chi fosse quel Mercury che lo approcciò maldestramente. Nel film la loro relazione comincia quando Freddie sa già di essere affetto da HIV: nella realtà Freddie ha trasmesso l’HIV a Jim Hutton, quando ovviamente non sapeva di essere ammalato. Questo particolare asservito allo script di fatto rende Mercury una sorta di insensibile untore, e ci fa domandare con quale scaltrezza due amici, come Brian e Roger, accettino di stravolgere per motivi scenici la vita sentimentale e morale del loro compagno di avventure defunto.
Ma la parte più sconcertante è che il film si interrompa il 13 luglio 1985, la data del Live Aid di Wembley, quei 20 minuti in cui la stella dei Queen brillò talmente tanto da consacrarli come la migliore band live del panorama rock mondiale. Una scritta bianca su sfondo nero ci racconta che “Freddie Mercury morirà il 24 novembre ecc… “: è il fotogramma che prelude ai titoli di coda, a “Don’t stop me now” e ovviamente a “The Show must go on”, prima del fade to black.
Cari Brian e Roger prestati al cinema, cari sceneggiatori, caro Brian Singer destituito. Ci avete mostrato questo bravo Rami Malek pieno di denti e di atteggiamenti mercuriani canzonatori, con tutti i coprotagonisti attorno a dedicargli centinaia di “spielberg faces” (le facce eternamente stupite dei film di Spielberg, ndr.) Ci avete mostrato il Mercury drogato, immorale, eccessivo, che dimentica gli amici e la fidanzata per l’oblio e la gloria personale e la lussuria.Ma perché mai non avete avuto il coraggio di mostrarci il Freddie “ultimo immortale” davanti al mistero della fine tragica della vita? Davanti alla struggente spada di Damocle dell’Aids? Quello distrutto dagli eccessi e sieropositivo, che affronta da guerriero e da artista impareggiabile il confronto con la morte imminente? Perché non abbiamo visto Rami Malek con la faccia gonfia di cortisone, quando il suo personaggio si ubriacava per potere stare in piedi in uno studio di registrazione? E gli anni in cui scriveva canzoni, finalmente profonde, sul suo personale senso della vita quando pesava già la metà ed era più morto che vivo? Quando già sapeva di essere condannato, quando girava videoclip in condizioni penose, in bianco e nero, truccato come una vecchia diva per nascondere le macchie dell’Aids, vestito con abiti pesanti perché nonostante il caldo delle luci di scena lui aveva freddo, il freddo della malattia?
Anche questo, è stato Freddie Mercury.
Ci dovevate l’incarnazione dell’impotenza davanti all’Aids, la malattia che il mondo ancora non ha vinto di cui Freddie è stato portatore e testimone e vittima. Ci dovevate l’uomo finale, la sua casa a Montreux e suoi cigni, il suo stupore sussurrato mentre ci faceva sapere che anche alla fine era “bliss”, stupendo, trovarsi lì, a chiudere gli occhi davanti alla natura nella sua accezione più semplice e perfetta.