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September 28, 2018
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The Good Cop, una serie garbata, che intrattiene “in punta di piedi”

La piattaforma Netflix sforna un poliziesco con protagonisti due poliziotti italoamericani di New York, padre e figlio, molto diversi tra loro

Chiara BarbobyChiara Barbo
Time: 4 mins read

In mezzo al fuoco di fila di accuse che arrivano da festival e pubblico (dei festival), Netflix continua a sfornare serie sebbene con una linea editoriale quanto meno casuale…

Tra i Netflix Originals si trova un po’ di tutto, anche se da qualche tempo l’impressione è che il livello sia sceso verso una mediezza se non proprio mediocrità che si addice di più a certa televisione generalista.

Se era partita con serie di altissima qualità, contribuendo ad alzare notevolmente l’asticella della produzione di fiction e documentari in serie – Godless e Wild Wild Country, solo per citare due esempi eccellenti – deve aver poi pensato che occorreva fare numeri maggiori, conquistare sempre nuove fasce di pubblico, ed ecco che allora ha cominciato a pescare nel meraviglioso mucchio delle idee seriali, originali e non, producendo a raffica prima genere, poi teen, poi documentari e adesso sembra essersi avventurata nell’insano modo del cosiddetto grande pubblico.

Un esempio di questo tipo di produzione è The Good Cop, basata su una serie israeliana e commissionata ad Andy Breckman, veterano della scrittura televisiva noto soprattutto per essere stato l’ideatore di Monk (Detective Monk).

E in effetti qualcosa di Monk – bizzarro, disadattato, nevrotico, dolente ed eccentrico protagonista dell’omonima serie – si intravede anche nel giovane tenente di polizia di New York protagonista di questa nuova serie, ma è un’eco molto, molto lontana.

Il giovane T.J. Caruso, curiosamente interpretato da Josh Groban (ben più noto come musicista che come attore), è il good cop del titolo, un giovane puro e onesto, ligio al dovere, etica impeccabile, non beve, non fuma, è ordinato, pulito, leale, gentile ma soprattutto, dicevamo, ha un’etica impeccabile, una morale di ferro che gli viene dal cuore  e dall’educazione ricevuta dalla madre morta pochi anni prima, investita da un pirata della strada.

Accanto a T.J, Breckman giustamente mette un padre che è l’esatto suo opposto, brillantemente intrepretato da Tony Danza, attore italoamericano energico e di gran cuore, e soprattutto  ben noto al pubblico americano.

Tony Caruso è un ex poliziotto traffichino e corrotto che ha passato sette anni in carcere e adesso si ritrova a vivere con un figlio che gli pare un alieno: si ferma al semaforo anche se sono le 3 di notte e non passa nessuno, non beve alcolici, ma solo soda con tanto di cannuccia, non fa le classiche battute ciniche da poliziotto e passa il suo tempo libero a fargli la predica su tutto.

E qui, nei siparietti domestici e in servizio (sì perché Tony si auto nomina detective aggiunto e non si perde un caso oppure ci si ritrova in mezzo suo malgrado) la serie dà il meglio di sé, attingendo a piene mani a quel capolavoro che è The Odd Couple  (La strana coppia), a Sinatra e tutto l’immaginario italoamericano più o meno illegale, grazie anche al supporto di un buon cast in cui spicca Isiah Whitlock, (The Wire, Law & Order e altri ancora), un poliziotto stanco, cinico quel che basta e soprattutto sulla soglia della pensione.

Girato in parte in studio e in parte on location nei vari quartieri di New York, The Good Cop averebbe tutti gli ingredienti per essere una buona commedia poliziesca, una detective story leggera che si aggira nelle strade di New York risolvendo delitti e chiacchierando con gli abitanti del quartiere, una via di mezzo fra dramedy e sitcom come struttura drammaturgica e come spirito, insomma, qualcosa di leggero e garbato che si allontana dal poliziesco cupo e violento a cui siamo abituati e che la stessa Netflix ha spesso prodotto con successo.

Purtroppo però The Good Cop non è Monk, e non è nemmeno il tenente Colombo, e non è neanche, in anni più recenti, Brooklyn Nine-Nine.

Sembra che sia stata tanta la voglia di accontentare tutti, di fare il cosiddetto prodotto per famiglie, ma che acchiappi anche chi ama il genere, ma anche la commedia, i buoni sentimenti e anche un po’ di realismo on location, e tante cose ancora, insomma, tanto ha fatto che finisce per non essere niente di tutto questo ma appunto una serie garbata ma fin troppo garbata, che intrattiene in punta di piedi, ma tanto in punta di piedi da rischiare di far perdere l’interesse allo spettatore attento, una serie in cui la linea gialla è esile e la detection goffa, dove i dialoghi brillanti sono lontani dal cinismo e dall’arguzia (a seconda del caso) dei suoi illustri predecessori che pur prende esplicitamente a riferimento.

Ecco, una perfetta serie per il grande pubblico tanto che ci si aspetterebbe di vederla sulla CBS o su USA di qualche anno fa (no, in Italia no, non si farebbe nemmeno questo, ma qui si aprirebbe un lungo, lunghissimo capitolo…).

Ma la domanda a questo punto è la seguente: è questa la nuova mission di Netflix oppure la piattaforma più vista al mondo è nel panico e, nella disperata corsa a fare tutto e aumentare i suoi profitti (anche perché le sue mille produzioni costano, si parli di serie o di film), si sta perdendo in mille rivoli di cose fatte in fretta e non sempre valutate con attenzione dai suoi commissioning editor o decision maker che dir si voglia? Chissà. Probabilmente un po’ tutt’e due.

Tornando a The Good Cop, è qualcosa da guardare senza impegno e anche una bella occasione per vedere quartieri e angoli di New York solitamente lontani dagli schermi: Long Island City, Sunset Park, Bay Ridge, scorci di Staten Island e persino Bear Mountain, meta sciistica di tanti newyorkesi. Anche se ormai a New York tra televisione, Netflix, Amazon e compagnia, si gira praticamente ovunque, quindi basta aguzzare la vista e tra una serie e l’altra si ritrova un po’ tutto.

Anche la strada sotto casa e anzi, se non si sta attenti, affacciandosi alla finestra si rischia di finire dritti dritti nell’inquadratura.

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Chiara Barbo

Chiara Barbo

Scrivere di cinema o scrivere il cinema? Possibilmente tutti e due. Dalla critica cinematografica alla sceneggiatura passando per la produzione, al di qua e al di là dell'oceano, collaboro con La VOCE di New York e con Vivilcinema, con la Pilgrim Film e con Plan 9 Projects. E anche con altri. Ma per lo più penso, immagino, ricerco, scrivo, organizzo in modalità freelance. Insieme a tanti altri, faccio parte della giuria del David di Donatello. New York è stata una scelta. New York è intensa, vitale, profonda e leggera, pacchiana e intellettuale, libera, creativa, è difficile, è bellissima, ed è la città più cinematografica del mondo.

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