Nella galleria di film italiani che Open Roads: New Italian Cinema 2018 porterà nelle sale del Lincoln Center fino al 6 giugno, e di cui vi teniamo aggiornati con lo speciale sul festival, c’è anche Cuori puri. Lo scorso anno il nostro Simone Spoladori aveva incontrato il regista Roberto De Paolis al Festival di Cannes, dove il film concorreva all’interno della Quinzaine des Réalizateurs. Ora abbiamo avuto la fortuna di incontrare il regista qui a New York, dove è arrivato per accompagnare il film.
Di seguito riportiamo l’intervista, al termine della quale segue la nostra recensione del film.
Un film che, ad avercene.

Raccontaci un po’ da dove parte Cuori Puri. Qual è stata la scintilla che l’ha fatto sbocciare?
“Sono partito da un fatto di cronaca della periferia di Roma: la storia di una ragazza che diceva di essere

stata violentata da un rumeno. Poi venne fuori che non era vero. La ragazza, molto cattolica e proveniente da una realtà cattolica estremamente chiusa, si era innamorata, aveva perso la verginità, e aveva inventato lo stupro per uscire dalla situazione. Ho capito che quello poteva essere lo spunto giusto per raccontare l’incontro fra due comunità che condividono la periferia, ovvero italiani poveri e immigrati. C’era anche il desiderio di parlare di un tipo di chiesa diversa da quella istituzionale, distaccata, incapace di instaurare un rapporto umano con le persone, come invece tenta di fare il prete del film.
Un altro punto attorno al quale volevamo riflettere era la paura degli italiani di diventare i nuovi immigrati, una sorta di proiezione psicologica che porterebbe ‘noi a diventare ‘loro’ e che serpeggia molto nelle periferie”.
C’è tanta carne al fuoco in Cuori puri. L’amore, il desiderio, la verginità che non è solo castità fra due individui, ma sembra anche farsi atteggiamento sociale, in base al quale si vorrebbero mantenere puri i luoghi e le vite da tutto ciò che è diverso, sia esso un campo rom, oppure un borgataro per una ragazza modello. E poi c’è la questione dell’estremismo religioso, della famiglia “ribaltata”, in cui succede che siano i figli ad aiutare i genitori, come nel caso di Stefano. Come sei riuscito a tenere tutto in equilibrio? La domanda è per farti parlare un po’ della sceneggiatura…
“La sceneggiatura è stata un incubo, un vero inferno! Complessa e sofferta fino all’ultimo.
È come se avessi cominciato a scrivere questo film tantissimo tempo fa, da bambino direi. Ma del resto nelle opere prime c’è sempre l’ansia di mettere tutto quanto, un po’ per dimostrare quanto hai da dire.
Credo che l’equilibrio — se c’è — sia stato ottenuto nel montaggio.
È stato molto difficile gestire i personaggi nella loro diversità.
Per quanto riguarda la purezza, sì, Agnese simboleggia il problema dell’Italia che non vuole essere calpestata, invasa dagli stranieri. C’è, in questo senso, la sovrapposizione del luogo con il corpo.
Ricordo di essere rimasto colpito da un manifesto di CasaPound che ritraeva l’aggressione di un nero ai danni di una bianca, con in calce la scritta “Difendila! Potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia”. Qui è evidente il riferimento al corpo, ma anche alla patria, alla necessità di preservare il territorio dal nemico straniero.
Poi ho incontrato un parcheggiatore, e ho pensato che fosse un corrispondente giusto da affiancare alla ragazza: lei difende il proprio corpo come lui difende uno spazio. Quindi la preservazione del corpo e del luogo vanno di pari passo.
Dicevo che è stato difficile gestire la diversità dei personaggi. Mi riferisco ai due protagonisti, che sono diversissimi fra loro, ma anche alla diversità tra Stefano e gli altri, come per esempio i rom con cui si ritrova ad avere a che fare”.

C’è un personaggio che ti fa più tenerezza, o verso il quale ti senti più interessato, registicamente e umanamente?

“La tenerezza umana l’ho provata verso Agnese, e verso Selene Caramazza, che interpreta il personaggio. Ho chiesto agli attori di essere se stessi, e loro hanno tirato fuori il proprio vissuto, e l’hanno portato sul set. Selene è una ragazza molto taciturna, mite, riflessiva e anche misteriosa. Credo di aver visto in lei la fragilità incarnata in un essere umano.
Dal punto di vista registico, il prete è la figura che ho trovato più interessante. I preti di solito sono rappresentati come cattivi, severissimi. Ma sarebbe stato troppo facile riproporre quel tipo di figura.
Poi mi è capitato di conoscere don Fabio Rosini, un prete illuminato, diverso, e abbiamo provato a raccontarlo. In realtà è stato lui a raccontare se stesso! Le battute che il personaggio del prete pronuncia nel film vengono direttamente da lui: è il linguaggio che usa con i suoi ragazzi. È davvero uno forte, che cerca di conquistare i giovani e di attirarli nella sua parrocchia.
Io non sono mai andato in chiesa, sono stato cresciuto con l’idea di doverne stare alla larga. Quindi per me, investigare questo nuovo tipo di chiesa è stato estremamente interessante”.
C’è una scena, molto attuale, in cui i ragazzi della parrocchia, che stanno preparando una sala per ospitare dei profughi, si chiedono se sia giusto o meno staccare il crocefisso dalla parete. Non ci sono risposte. Da questa scena ho potuto capire che il tuo cinema fa delle domande, mettendo sempre lo spettatore nella posizione del dubbio, che secondo me, è proprio quello che il cinema deve fare. Ci parli un po’ della tua idea di cinema, di quello a cui aspiri?
“Questa scena è nata sul momento. Originariamente dovevano essere pochi istanti di girato da inserire per collegare due scene. Poi, mentre i veri ragazzi della parrocchia — ragazzi veri, non comparse — stavano sistemando i letti, uno di loro ha chiesto “ma sono cristiani o musulmani?”, riferendosi ai profughi. E da lì abbiamo improvvisato la scena. E queste sono le cose più belle del fare cinema.
Per me il regista dovrebbe fare il meno possibile con la propria tracotanza da regista, e lasciare gli altri liberi di esprimersi in libertà.
Credo che sia giusto raccontare storie sommerse, taciute, o di difficoltà, che riguardino gli immigrati, la chiesa contemporanea o il tema della verginità, senza avere la pretesa di fare del ‘cinema sociale’. Per me fare cinema è tirare fuori storie sommerse e portarle alla luce. Penso per esempio alla prostituzione, un fenomeno diffusissimo in Italia, e di cui nessuno parla. Il cinema serve a creare l’intimità, a gettare una luce intima su ciò che vedi, e a farti interrogare su ciò che vedi.
So che sei anche un fotografo. Fotografia e cinema sono parenti strettissimi. Volevo sapere fino a che punto sei fotografo come regista.
In Cuori puri non lo sono stato affatto! La fotografia cerca la bellezza. E questo vale per tutti i fotografi anche quelli di guerra, che puntano all’immagine d’impatto, ma che in qualche modo sia anche bella. Nella fotografia c’è, quindi, una ricerca estetica, che in questo film non c’è. Non eravamo intenzionati a creare dei momenti estetici. La nostra priorità era stare dietro al movimento degli attori. E non è stato semplice, per esempio, stare dietro al personaggio di Stefano, che si muove tantissimo durante il film.
Per quanto riguarda la fotografia cinematografica del film, abbiamo sfruttato la luce naturale ma senza costringere gli attori a rispettare quelle istruzioni che uccidono la spontaneità della recitazione — dire la battuta in un determinato punto e in un determinato momento perché in quel punto e in quel momento la luce è ideale.

In concorso nella Quinzaine des Realizateurs a Cannes 2017, tre candidature ai Nastri d’Argento e una candidatura al David di Donatello. Se crediamo a partecipazioni festivaliere e riconoscimenti — e sì, tendiamo a crederci — Cuori puri parte con un pedigree di tutto rispetto. E il film è pure meglio.
Periferia di Roma, Tor Sapienza. Agnese, diciotto anni compiuti di fresco — il compleanno è nel film — e Stefano, venticinque. Due vite che più diverse non si può. Agnese frequenta la parrocchia, fa volontariato, segue alla lettera la parola di Dio, passata per bocca della religiosissima madre. Stefano campa come meglio può, sobbarcandosi gli oneri di una famiglia alle prese con uno sfratto esecutivo, e raccattando lavori temporanei, l’ultimo dei quali lo vuole custode di un parcheggio accanto a un campo rom. Due tiri a pallone, amici borderline fra spaccio, zuffe e pacche sulle spalle completano la sua routine.

L’incontro fra i due ragazzi è anomalo, un po’ come la loro storia, e brilla in lontananza il tropo della coppia che unisce il bullo di periferia alla ragazza per bene, da La signorina e il teppista di Evgenij Slavinskij (siamo nel 1918) a Grease — giusto per fare due passi nella storia del cinema.
Per rimpiazzare il cellulare sequestratole dalla madre, Agnese ne ruba uno in un centro commerciale. Stefano, sorvegliante proprio in quel centro commerciale, la rincorre e l’acciuffa, ma la lascia andare — perdendo, per questo, il posto di lavoro. Questa, la scena d’apertura: una corsa a perdifiato, anzi una fuga a più non posso, che detta il tono del film. Le coincidenze portano i due a rincontrarsi, e l’amore sboccia su un muretto, nel pieno rispetto dell’iconografia amorosa adolescenziale. Ma l’idillio non ha nulla di iconografico. I problemi delle reciproche esistenze si mettono di mezzo: Stefano ha vita tutt’altro che facile con i rom con cui deve convivere, ovvero la minaccia da cui deve difendere le macchine del parcheggio che custodisce. Agnese è costretta nella gabbia in cui l’estremismo religioso della madre l’ha rinchiusa. Ed è la madre stessa, paradossalmente e drammaticamente, a spingerla, con le proprie mani, verso “il peccato”: la ragazza finirà per rubare, mentire, perdere la verginità. En plein, insomma… Ironia a parte, il comportamento della figlia è un triste contrappasso per la donna, o forse la prova che la sua interpretazione della parola del Signore non coincide con il bene di Agnese. Oppure che amare troppo può far più male che bene.
La verginità è un perno centrale nel film di De Paolis, fin dal titolo stesso: Cuori puri deriva da una vera iniziativa di giovani e coppie che decidono di scegliere la castità fino al matrimonio. E la verginità che a tutti i costi si vuole preservare — vedi Agnese, pressata dalla madre — in realtà sembra raggiungere un raggio interpretativo più ampio, e rimandare, oltre alla castità fisica di due individui, a un atteggiamento sociale, in base al quale si vorrebbero mantenere i luoghi e le vite puri, lontani da tutto ciò che è diverso, sia esso un campo rom, oppure un borgataro per Agnese. Il film quindi investiga l’alterità come portatrice di corruzione, rispondendo a un comportamento che trova un’effettiva rispondenza nella realtà.
Il bello di Cuori puri — ed è proprio bello — è che scopre tutti questi nervi vivi senza emettere giudizi di

sorta, e soprattutto, senza farsi contaminare dal politicamente corretto, una piaga a cui prima o poi si dovrà trovare una cura e lasciare così il cinema contemporaneo libero di proporre qualsiasi situazione mutuata dal reale, senza il timore di ferire questa minoranza o quel credo religioso.
Nel film di De Paolis i rom non sono tutti buoni e oggetto di compassione — ma nemmeno sono tutti cattivi o criminali. La parrocchia non è un ambiente bigotto e chiuso, e il prete non è né un moralizzatore medievaleggiante né un Don Matteo risolvo-tutto, ma fatica anche lui a capire cosa frulli in testa al suo gregge, Agnese nello specifico. Stefano è innamorato matto, però è anche il bullo che, insieme al capo coatto suo amico, intimidisce, spaccia, delinque. Agnese, malgrado il destino cucitole addosso dalla madre, non è la santa che la madre — e anche lei stessa — vorrebbero. L’ideale della perfezione si conferma essere un’ideale, scollato dalla realtà e foriero di guai. Agnese cede a Stefano ma non già — o non solo — per far piacere al ragazzo, bensì per dare piacere a se stessa, un gesto inaudito per la sua coscienza cattolica, che cercherà di riparare ricorrendo a una menzogna — come spesso è successo nel corso dei secoli.

Cuori puri, non lo si scordi, è anche un film in cui vediamo in azione un motore di nome desiderio. Agnese vorrebbe resistere al fascino pasoliniano di Stefano, orecchino, cicatrici, faccia da schiaffi — ovvero i tratti che spesso la fragilità assume in contesti di povertà e squallore. Ma non ci riesce. E forse anche Stefano vorrebbe ignorare Agnese, la ragazza modello tutta casa e chiesa. Ma nemmeno lui, ovviamente, ci riesce. Quello che possono fare, i due, è solo e semplicemente viversi.
E sempre di bello c’è la capacità di cogliere un momento sentimentale unico nell’esistenza di tutti e che per questo parla a tutti, ovvero il primo amore e di calarlo in un contesto che parla ugualmente a tutti. Perché quella è la borgata di Roma, ma potrebbe essere la periferia di Verona, di Milano, di tutta l’Italia, in cui il diverso — il foresto — fa paura e con cui si fa una triste gara al chi si assicura più “privilegi” a livello statale. Quando una storia sincronizza particolare e universale, con giovani attori di nuovo talento (Simone Liberati, Selene Caramazza) e attori navigati di riconosciuta capacità (Barbora Boboluva), lo schermo sorride, lo spettatore con lui, e i riconoscimenti fioccano.
Cuori puri sarà proiettato questa sera, venerdì 1 giugno, alle 8:45 pm presso il Walter Reade Theater del Lincoln Center, a cui seguirà un Q&A con il regista De Paolis. Una seconda proiezione è in programma mercoledì 6 giugno alle 2 pm, sempre al Walter Reade Theater.