Il Tribeca Film Festival propone ogni anno nuove esperienze visive tra lungometraggi e cortometraggi, documentari, serie tv, videogiochi, realtà virtuali e immersive di vario genere, accanto ai numerosi incontri con registi, sceneggiatori, attori, produttori, show runner, giornalisti, creatori di concept e format, dando vita a quello che sembra sempre più assomigliare a un laboratorio multimediale, più o meno aperto al pubblico, nel cuore della città.

E la città partecipa, spesso più che altro per far parte di quello che da tutti viene vissuto come un grande evento, ma anche per sfruttare le opportunità tecnologiche offerte nell’hub del festival a Tribeca e sì, anche per vedere qualche film.
Guardando un pochino alla selezione dei film nelle varie sezioni, ci sono due aspetti che mi hanno fatto pensare, mentre guardavo i film e anche in questi giorni, a festival finito.
Il primo riguarda i temi dei film programmati nelle sezioni principali, e in questo il Tribeca è in linea con la maggior parte dei festival internazionali: drammi, malattie, dolore, morte, disgrazie varie, lutto sono decisamente prevalenti nei film selezionati, così come lo è il tono assolutamente drammatico a scapito di toni diversi, anche ibridi. Niente di nuovo, direte, ma mi ha colpito la quantità di film drammaticissimi visti, raccontati con uno stile sostanzialmente tradizionale. Non viviamo certo in tempi leggeri, è una di quelle epoche che sembrano in pieno tracollo o al limite di un tracollo ma non sai bene verso cosa, e nemmeno se è un vero tracollo – sociale, economico, culturale – o piuttosto una profonda trasformazione che, per quanto difficile, potrebbe portare un giorno a qualcosa di meglio. Certo la sensazione, a guardarsi intorno, non è buona.
Ma ci sono state veramente epoche che non siano state percepite così e che il cinema non ci abbia già raccontato come tali, seppure con le dovute varianti? Pensiamo a come il cinema raccontava la New York degli anni Cinquanta e Sessanta, in piena crescita ma profondamente razzista, negli anni Settanta e Ottanta era povera e corrotta, negli anni Novanta e Duemila è stata in mano a speculatori e finanza perdendo quasi del tutto il suo carattere.

Gli aspetti drammatici della vita, pubblica e privata, hanno sempre dato luogo alla riflessione e all’elaborazione artistica, ma l’impressione è che nella nostra epoca, cinematograficamente parlando, si diano poco spazio e poche opportunità all’elaborazione artistica, sia per chi il cinema lo fa sia per chi il cinema lo mostra, che non vuol dire in alcun modo fare e mostrare un cinema per pochi, elitario, difficile, vuol dire semplicemente un cinema che possa percorrere anche altre strade, che mostri quel che c’è dietro e oltre le parole, che provi a far vedere cosa c’è dietro la curva della strada insomma, non solo che ci accompagni più o meno piacevolmente lungo la strada. Che comunque è già una buona cosa, intendiamoci. Ma la sensazione è che spesso nei film visti, in sala e anche ai grandi festival, manchi quel passo in più.
E qui siamo all’altro punto che mi ha fatto pensare, quello cioè dello stile o meglio ancora, del modo del racconto. Pur con qualche ottima eccezione – ne cito una per tutte, To Dust, piccolo meraviglioso film di Shawn Snyder che racconta il lutto e il dolore con i toni della commedia, che sa essere insieme riflessione culturale, satira e racconto profondo sulla compassione e che (attenzione, attenzione!) ha vinto il premio del pubblico come miglior film – i film selezionati quest’anno al Tribeca erano generalmente tutti ben scritti, ben diretti e ben interpretati, ben illuminati e ben montati, tutti fatti secondo le regole, corretti, tutti medi.

Ecco, è questa generale “mediezza” che mi ha fatto pensare, come se ci si preoccupasse soprattutto di fare le cose per bene, di stare dentro le righe, di non avventurarsi non dico per forza in sperimentazioni ma almeno in scelte più personali o comunque verso strade altre, che potrebbero portare a fare qualche errore ma potrebbero portare anche alla creazione di qualcosa di nuovo, originale, che rispecchi anche nella forma e non solo nei contenuti questo nostro tempo così complicato.
Insomma, non voglio generalizzare (e comunque lo sto facendo) e magari l’originalità e la sperimentazione sono tutte concentrate nell’innovazione tecnologica a cui il Tribeca dà grande spazio, ma quanto ai film in sé non posso dire di aver visto cattivi film bensì ho visto molti film di quelli che ti dimentichi cinque minuti dopo essere uscita dalla sala.

E in questo senso mi sembra che il Tribeca Film Festival 2018 sia un po’ lo specchio di tanto cinema fatto in questi anni, e qui il discorso si fa complesso, perché può riguardare sì gli autori ma riguarda soprattutto un sistema di finanziamento, di produzione, distribuzione e di promozione, un sistema di selezione, che ha indubbiamente dei grandi limiti. Perché di buoni film se ne fanno ogni giorno in ogni parte del mondo, di autori di talento ce ne sono tantissimi, eppure molti di questi film non solo non arrivano a essere presentati a un festival ma spesso non arrivano nemmeno a essere realizzati.
Tornando quindi al Tribeca, il pensiero è che più che mai adesso sarebbe bello poter vedere anche altro, mentre la sensazione è che ancora una volta ci si ritrovi a guardare un cinema che batte strade sicure, che quando racconta spesso non ha una sua mano o un suo sguardo, non va a scoprire o a suggerire ma piuttosto si preoccupa di spiegare, un cinema che sempre di più somiglia alla televisione e ai tanti prodotti delle piattaforme oggi disponibili, ma occorre fare attenzione perché quelli sono ormai più innovativi, sono andati già oltre, ben oltre, e il cinema non dovrebbe rincorrere ma precorrere, o comunque avere dei tratti propri nell’oggetto e nel modo del racconto altrimenti (lo so, adesso mi prenderò gli strali di molti), lunga vita a Netflix!