Ci vuole coraggio, allenamento, disciplina, fiato e passione per fare ancora a 88 anni compiuti capriole, sforbiciate, salti su un palcoscenico di legno. Ferruccio Soleri, classe 1929, è tornato al Piccolo Teatro di Milano nei panni dell’Arlecchino servitore di due padroni, entrambi straordinari casi di longevità. Perché lo spettacolo “goldoniano” che volle fare Giorgio Strehler risale al luglio del 1947 e nonostante svariate edizioni ha mantenuto da allora la continuità con l’originale. Quanto a Soleri, in pratica ne è la memoria, visto che era un giovane attore magro e agile, quando nel 1963, due anni dopo la morte di Marcello Moretti il primo Arlecchino, Strehler decise che la parte del servo goldoniano era sua. L’unica parte, eccetto qualche sporadica parentesi “altrove”, interpretata da Soleri in tutta la sua lunga carriera, una maschera che recita ininterrottamente da 55 anni, oltre 3mila rappresentazioni in 40 paesi del mondo e per oltre due milioni di spettatori. Ovvio, quindi, che anche in questo finale di stagione (tra l’altro quella dei 70 anni del Piccolo Teatro, fondato nel 1947) proprio Soleri ritorni in scena con la sua maschera (alternato con il suo successore, Enrico Bonavera). Un’avventura scenica unica e irripetibile questa di Arlecchino, fatta di giochi e di malinconie, di burle, lazzi e bisticci. Un’avventura che lo stesso Streher definiva “sempre uguale e sempre diversa, libera dal tempo che passa». Senza poi dimenticare il Guinness dei primati, dove si stabilisce che proprio Arlecchino servitore di due padroni è la rappresentazione teatrale italiana in assoluto più vista in ogni angolo del mondo.
Soleri, come fa ad essere sempre così in forma? Non le pesa la disciplina che le impone Arlecchino?
“No, gli allenamenti li faccio ancora volentieri: ogni giorno tre piani di scale, salire e scendere, e 20 minuti di marcia. Poi, da un mese prima dello spettacolo aggiungo anche 20 minuti di ginnastica stretching e una volta al mese, più o meno, il mio fisioterapista che mi segue da anni, mi massaggia, perché la spina dorsale, invecchiando, è la parte più delicata. E poi c’è la dieta. Comincio dalla frutta sia a pranzo che a cena, poi a mezzogiorno insalata o contorno e carme bianca o pesce, e per terzo un piatto di spaghetti o riso. Sì, all’incontrario. La sera niente primo. E il pomeriggio bevo il Kee mun, il te nero degli imperatori cinesi che non danneggia il cuore e dà energia ai muscoli”.
Ho visto che ha ancora la brandina dietro le quinte dove tra una scena e l’altra fa pure un riposino. Ma davvero… dorme prima di andare in scena?
“Sì, sì. Certo. Riesco a dormire anche solo per due minuti e questo mi ridà carica”.
Cosa fa quando non fa Arlecchino?
“Riduco la disciplina alle sole scale e alla marcia. E mi risposo, faccio finalmente le parole crociate, che sono la mia passione”.
Cosa si prova ad aver recitato sempre e solo lo stesso personaggio?
“Sono contento perché è un personaggio che piace alla gente, allegro, ingenuo, ma anche un misto di corpo e anima, fame e poesia.
Il miglior complimento della sua carriera?
“A Londra, quando la regina ci ricevette a Buckingham Palace interrompendo il suo pranzo. Cosa mai successa. Laurence Olivier che mi vide sempre nella capitale inglese nel ’67 mi disse: “Stasera avrei voluto essere te”. E poi negli Stati Uniti dove vennero a vederci gli attori di mezza Hollywood”.
C’è stato un momento in cui avrebbe voluto recitare altro?
“Sì, eccome, ma Strehler mi diceva “Ferruccio ci chiedono Arlecchino” e col senno di poi non mi è dispiaciuto. Non sarei famoso come lo sono oggi”.
Lei sorride sempre poco?
“Forse perché sono abituato a stare sotto la maschera, che nasconde le mie emozioni. Il mio volto lo mostro solo se il pubblico lo chiede alla fine, agli applausi”.
E che significato ha quel gesto?
“Dire: io non sono Arlecchino, devo solo far credere di esserlo”.