Il Tribeca giunge al termine, e domani, 29 aprile si chiuderà in bellezza con la serie-documentario sul lavoro del New York Times durante l’era Trump, The Fourth Estate. Verranno anche proiettati gli ultimi screening dei film vincitori degli Awards.
Il ciclo degli Awards del Tribeca Film Festival, quest’anno, ha distribuito premi in cash per un ammontare di 145.000 dollari e ha ormai identificato i lavori più influenti della 17esima sessione. I vincitori ci sono, ma ciò che manca sono gli sconfitti.

Il Festival di Tribeca è ormai un’istituzione da 17 anni, e porta in città eventi culturali di un’importanza incommensurabile per l’identità di New York. Film da tutto il mondo si mettono in mostra per essere venduti, ma soprattutto portare tutti i tipi di realtà ad un audience differenziato e vastissimo, affinché vengano celebrati racconti e storie visionari, ma anche quelli dimenticati. E’, insomma, lo specchio del melting-pot proprio della Grande Mela, con la sua tensione all’educazione verso la diversità.
E questa educazione avviene attraverso l’arte visiva e sensoriale propria del cinema, della buona TV, della VR (realtà virtuale), giochi, musica e progetti online; attraverso una fusione di arte e tecnologia. Attraverso il cinema indipendente, infatti, il Tribeca è oggi una vera e propria piattaforma per espressione creativa e voci differenti. “E’ gratificante onorare film che raccontino storie importanti e che hanno mosso nel profondo i nostri giudici”, ha detto Jane Rosenthal, Capo Esecutivo e Co-Fondatrice del Festival.

La forma d’arte del cinema e del filmmaking viene premiata, durante il Festival, dall’innovazione e dall’espansione delle opportunità, che vengono messe sul piatto d’argento a tutti creatori altrimenti sottorappresentati che vogliano condividere con lo spettatore il proprio lavoro e le proprie scoperte. Tribeca è questo, passione e condivisione. Sono stati proiettati 99 film, 55 short film, e 35 progetti di storytelling, provenienti da 46 Paesi diversi, e ciascuno, a suo modo, ha trovato spazio nel palcoscenico dell’arte newyorkese.
I vincitori degli Awards della 17esima sessione del Tribeca Film Festival sono stati decretati, ma non è solo con il denaro che sono stati premiati. Inès Eshun, regista del film The Life of Esteban, dopo aver ricevuto il “Student Visionary Award” ha detto: “ho sempre voluto essere parte di una tribù artistica. Proiettando il mio film al Tribeca è stato come tornare a casa”.
Iniziando dai film italiani, i tre registi – Laura Bispuri, Marco Proserpio e Susanna Nicchiarelli – hanno trovato nel Festival un trampolino di lancio per allargare incredibilmente il loro audience e ampliare la forza del loro messaggio. A partire da Figlia Mia, la cui distribuzione nel Nord America è stata appena acquisita da Strand Releasing, a The man who stole Banksy, di cui abbiamo già parlato, fino a Nico 1988.

Nico 1988, di cui abbiamo parlato poco, più che essere film indipendente, già partiva da un solido audience di base, ma con il Tribeca ha fatto molto di più. Susanna Nicchiarelli è, ormai, sulle bocche di tutti. E, grazie a lei, Nico, la cantante, lo è ancora di più, dopo essere rimasta nel dimenticatoio per anni. Un film incredibile, quello di Nicchiarelli, che fa scoprire un lato del tutto nascosto di Christa Päffgen, la cantante, attrice e femme fatale tedesca che ha fatto cadere ai suoi piedi artisti di incredibile portata come Jim Morrison; ma non è stata solo questo. Nico 1988 parla del retroscena, della grandezza del personaggio in sé, per una volta visto dalla sua prospettiva.
La Nico che vive dentro questo film respira un’emozione difficile da non captare istitivamente sin dalle prime scene del film. Dopo essere stata chiamata femme fatale durante un’intervista, “non mi chiami così”, risponde, “non mi piace”. Da quel momento inizia la storia dei suoi ultimi due anni di vita, e del peso – affrontato a volte con la stessa leggerezza di una bambina – che si porta dietro dopo la sua carriera e dopo le scelte che hanno condizionato la sua vita personale, soprattutto quella di aver abbandonato suo figlio.
“Sono brutta?”, chiede al suo manager prima di uno spettacolo, “bene, non ero felice quando ero bella”. Tra sigarette fumate per colmare un vuoto interiore incommensurabile, droga, musica, sguardi intensi e silenzi che urlano amore materno, la fantastica Trine Dyrholm riesce a trasmettere un’empatia strabiliante. A volte incredibilmente emozionante, a volte incredibilmente poetica, a volte incredibilmente entrambe le cose, ma sempre incredibilmente forte, ora possiamo dire di conoscere la vera Nico, come sicuramente avrebbe voluto essere ricordata.
Tra i film più nominati al Tribeca figura soprattutto Diane, scritto e diretto da Kent Jones, e premiato per narrativa, cinematografia e sceneggiatura.

E’ un film americano davvero introspettivo, che il regista ha detto – durante gli Awards – di aver cucito su misura per la strabiliante Mary Kay Place, che al Tribeca ha lasciato tutti a bocca aperta. Diane, la protagonista, è devota all’amore verso gli altri e si prende cura delle persone che la circondano con una semplicità disarmante; soprattutto di suo figlio. Una generosità, la sua, che però si trasforma in malinconia e, talvolta, in un’alienazione incredibilmente realistiche. Diane è completamente abbandonata al bisogno altrui e di suo figlio. Ci fa venire il dubbio, ogni secondo, che la sua vera rovina sia anche la sua ragione di vita, il suo amore materno. E quando le persone attorno a lei inizieranno ad abbandonarla, lei rimarrà sola a riflettere sulle sue scelte passate.
Diane ha ricevuto più di 20.000 dollari da parte dell’AT&T per il “Best Narrative Feature”, che è stato consegnato a Kent Jones da De Niro in persona e Jane Rosenthal. “Anche qui abbiamo avuto difficoltà a prendere la decisione, ma dopo aver riflettuto rigorosamente, abbiamo scelto un film che crediamo abbracci bellezza, estetica ma anche i forti temi d’amore, lotta, vita, morte e femminilità, che sono lo spirito di questo 17esimo Festival”, ha detto il giudice.
Rispetto al premio per la miglior sceneggiatura, il film ha ricevuto altri 2.500 dollari. Alexander Dinelaris, membro della giuria, ha detto che “la diversa collezione di film di quest’anno era fondata su sceneggiature ironiche e inquietanti riguardo relazioni pericolose, lotte per la redenzione, e, sì, perfino mal di schiena cronico. Erano senza paura, spaventose, tristi e profonde. Sceglierne una è stato davvero un compito difficile. Ma era il nostro compito. Henry David Thoreau, una volta, scrisse che la massa di uomini conduce vite di silenziosa disperazione. La sceneggiatura che abbiamo scelto illustra meravigliosamente quella nozione attraverso un dialogo ricco, personaggi complessi ed elegante semplicità”.

Sulle bocche di tutti è anche Duck Butter. E’ un film che parla di due donne – Naima e Sergio – che, stufe delle relazioni disoneste e guaste, fanno un patto che le porta a rimanere 24 ore ininterrottamente insieme, facendo sesso ogni ora. Il loro esperimento, ideato per creare una nuova forma d’intimità, non finirà come previsto e la relazione, che doveva essere una spinta verso la vita più intensa e verso la conoscenza intima reciproca fa cadere le due donne in una trappola.
A parte i meriti dell’originalità della storia, e di un cast estremamente capace e brillante – soprattutto Alia Shawkat – Duck Butter manca però di coinvolgimento. E’ difficile per lo spettatore immedesimarsi in scene così sconnesse l’una dall’altra – sebbene tutte si svolgano in un arco di tempo di 24 ore – ed entrare veramente nella dinamica del film, che invece avrebbe la potenzialità di descrivere le vicende in maniera davvero naturale.
L’attrice protagonista, Alia Shawkat, ha ricevuto premio migliore attrice nel filone della narrativa USA, “US Narrative Feature Film”, e ha avuto un ruolo importante duranti tutte le fasi della scrittura, del montaggio e della produzione del fillm. Justin Bartha, membro della giuria, introducendo il premio ha detto che “scegliere la migliore attrice quest’anno è stato particolarmente difficile, dato che il Festival è stato caratterizzato da performance femminili davvero incredibili. L’attrice che abbiamo scelto di premiare ha recitato in una maniera incredibilmente naturale, coinvolta e reale, un personaggio che faticava ad essere naturale, coinvolto e reale. Questa donna ha anche aiutato a scrivere, produrre e generare questo film … quindi bisogna dire che senza Alia Shawkat non ci sarebbe nessun Duck Butter”.

Tutta una sessione degli Awards è stata dedicata, poi, ai documentari. Il premio per il miglior documentario è andato a Island of the Hungry Ghosts, diretto da Gabrielle Brady, che ha ricevuto ben 20.000 dollari. Dan Cogan, membro della giuria, consegnando l’Award ha detto che il film è riuscito a dimostrare una “maestria straordinaria di tutta la gamma sinfonica degli strumenti cinematografici: la cinematografia, il montaggio, la colonna sonora, il sound design, e, più importante di tutti, un uso squisito della metafora”.
L’isola di Christmas Island, in Australia, è immersa nella natura selvaggia, una giungla che è teatro di uno scandalo taciuto. Con più o meno 2000 abitanti, l’isola è sede di detenzione di 800 richiedenti asilo desiderosi di scappare dal proprio Paese e rifugiarsi in Australia, dove però vengono rinchiusi in un carcere di massima sicurezza. La protagonista, Poh Lin, vive nell’isola con suo marito e due figlie, e fa la psicologa dei detenuti. La grandezza di questo documentario sta nel rappresentare la sua frustrazione e impotenza, quando i suoi consigli e il suo supporto ai pazienti vengono calpestati dalle autorità del centro per “ragioni di sicurezza”. E fortemente d’impatto è anche l’ironia che la regista riesce a mettere nel proprio lavoro mentre racconta in maniera così cruda l’immigrazione.
Le storie dei rifugiati si impregnano d’intensità e tensione, svolgendosi nella trama attraverso le sedute con la protagonista, dove questi parlano di ciò che hanno vissuto prima di arrivare nell’isola ma anche della brutalità a cui sono sottoposti dagli agenti del carcere, violenza che mette in luce la contraddizione delle attitudini umane con una franchezza e con un’ironia disarmanti.
Oltre agli Awards citati, il premio per il migliore attore nel filone “U.S. Narrative Feature Film” è stato assegnato a Jeffrey Wright, in O.G.; il “Nora Ephron Award” a Nia DaCosta, regista di Little Woods; il “Best New Narrative filmmaker” a Shawn Snyder, regista di To Dust; l’“Albert Maysles Award” per il miglior “New Documentary Director” a Dava Whisenant, per Bathtubs Over Broadway; il “Storyscapes Award” a Hero, diretto da Navid Khonsari,Vassiliki Khonsari e Brooks Brown; il “Student Visionary Award” a Life of Esteban, di Ines Eshun; e il “Tribeca X Award” a For Every Kind of Dream, uno short film diretto da Mohammad Gorjestani.