L’Europa si trova di fronte alla più grande crisi migratoria dopo la seconda guerra mondiale, che vede migranti africani e mediorientali fuggire da guerra civile, persecuzione e difficoltà economiche con barche improvvisate che attraverso il Mediterraneo sono dirette verso la promessa di un futuro migliore. Il numero di morti al largo di Lampedusa ha superato i 2.000 nel 2015. L’Unione europea ha creato una task force internazionale di poliziotti specializzati per realizzare un sistema di maggiore cooperazione con le forze di polizia extraeuropee con il compito di combattere l’immigrazione illegale. Nelle sale italiane dal 7 settembre 2017, il film di Andrea Segre L’Ordine delle cose si concentra sull’opera di questa task force per rappresentare in maniera articolata i sistemi di potere che rendono questa crisi umanitaria infinita in nome della sicurezza. Il film è stato proiettato in anteprima americana al Queens College della City University di New York lo scorso 25 ottobre. Il film di Andrea Segre è stato presentato nell’ambito della prima edizione del festival Made in Italy: Arts + Cultures, e il festival del cinema legati ai programmi di Italian Studies al Queens College e al programma di Letterature Comparate e Italian specialization al Graduate Center, CUNY. Lo scopo di queste iniziative è quello di promuovere la migliore produzione cinematografica italiana, fornire l’occasione per un dibattito sui temi importanti come quella della migrazione e anche comprendere l’Italia di oggi nell’ abito di un contesto globale. Sulla scia delle ansie per la politica sull’immigrazione negli Stati Uniti connesse alla sospensione del DACA, questioni di migrazione, spostamenti e barriere riguardano da vicino un pubblico di studenti che vive nella capitale mondiale dell’immigrazione: il distretto di Queens, statisticamente il luogo più multietnico degli Stati Uniti.
Segre affronta spesso il tema della migrazione, di solito dalla prospettiva del migrante, come ha fatto in I sogni del lago salato (2015), Come il peso dell’acqua (2014), Io Sono Li (2011), Mare chiuso (2012) e nel forse più famoso Come un uomo sulla terra. Il suo ultimo film, invece, inverte la prospettiva, mostrando la vita fittizia di un alto funzionario del Ministero degli Interni italiano specializzato in missioni internazionali contro l’immigrazione illegale. Corrado Rinaldi, elegantemente interpretato da Paolo Pierobon, cerca di farsi strada nel contesto sociale reale dei negoziati tra l’Italia e la Libia sulla migrazione. Alterna una vita tranquilla e borghese a Padova con la sua famiglia alle visite a Tripoli, dove ha il compito di “ottenere risultati” (cioè la riduzione notevole dei numeri di migranti che raggiungono l’Europa) e dove lavora per assicurare la cooperazione libica con la Guardia Costiera italiana attraverso la coercizione diplomatica di potenti funzionari della polizia libica. I viaggi di Corrado sono punteggiati da scene tranquille ambientate nella suite nel suo albergo di lusso a Tripoli o nella sua casa immacolata. Un gioco con la Wii rivela che Corrado in passato era uno schermitore olimpico. La sua esperienza con una tradizione di lotta violenta sublimata in uno sport elitario funziona come metafora psicologica della distanza che separa i giochi di governo e gli accordi tra stati dalle vite dei migranti che questi ultimi condizionano o addirittura condannano. Proprio come gli schermitori non versano sangue sulla pedana, gli uomini di stato vorrebbero far credere che le loro negoziazioni non lasciano sangue sul tavolo delle trattative, mentre invece la vita dei migranti diventa sempre più vulnerabile.

Corrado chiaramente crede in questo sistema incruento fino a quando non visita un centro per richiedenti asilo, uno “hotspot” a Tripoli. È chiaramente un centro di detenzione mascherato, dove si trova una violenza indicibile. La presenza di un cadavere nascosto conferma il sospetto che i gestori dei centri fanno affari con i trafficanti di esseri umani, procurando loro migranti a pagamento e portando i migranti dalle carceri ai centri di detenzione alle rotte di transito. Questo quadro, tra l’altro, assomiglia molto alla realtà descritta da molti sopravvissuti alla traversata intervistati negli altri film di Segre (i centri sono in parte finanziati dal governo italiano, uno sforzo che è iniziato come collaborazione tra Berlusconi e Gaddafi, celebrata come un momento importante di pace postcoloniale). Corrado insiste sul fatto che i centri debbano rispettare di più i diritti umani, ma è solo una questione di facciata. La gravità della violazione di tali diritti in realtà non lo tocca fino al momento in cui una giovane donna somala, Swede (Yusra Varsavia), gli si avvicina e gli chiede aiuto. Dando un volto umano alle orde di migranti che Corrado deve tenere a bada, Swede espone Corrado alle speranze e ai sogni che li spingono ad affrontare rischi enormi. Vedendo finalmente il sangue sul tavolo delle trattative, Corrado è messo di fronte alla propria coscienza mentre conclude accordi che mirano solo a riportare i rifugiati nei luoghi della sofferenza e a rischiare la vita.
Il film non potrebbe essere più attuale, dopo il vertice di Parigi guidato da Emmanuel Macron in cui i paesi europei si sono riuniti per discutere programmi di finanziamento per rafforzare ulteriormente i confini italiani. L’intervento di Segre ci spinge a riconsiderare quello che è in gioco, ricordandoci che nessuna stoccata nel panorama internazionale riesce a non versare sangue.
*traduzione di Stefania Porcelli