
Tonya Harding è stata nel 1994 la protagonista di uno dei più grandi scandali sportivi nella storia degli Stati Uniti. Nick Bollettieri è una leggenda vivente per aver cresciuto una generazione di campioni del tennis. Enzo Ferrari, patriarca della omonima casa automobilistica si è spinto a sognare la velocità come nessun altro. Sono loro i protagonisti di tre film sullo sport in concorso nella selezione ufficiale della Festa di Roma E sul red carpet anche il coach più vincente della storia dell’Nba, Phil Jackson che nell’incontro con il pubblico rivela di aver rischiato di diventare un attore.
Love means Zero di Jason Kahn
Nick Bollettieri come non l’abbiamo mai visto. Chi si nasconde dietro questo ormai anziano signore che nonostante gli 86 anni ancora si muove in scarpe da ginnastica e lungo i campi da tennis per lanciare ancora nuovi talenti nel tennis ce lo racconta meravigliosamente Jason Kohn, il regista di Love Means Zero. Il documentario in concorso alla 12. edizione della Festa del Cinema di Roma racconta la lunga carriera di uno dei coach più controversi della storia del tennis. Sotto la sua guida sono diventati numeri uno del mondo molti giocatori o hanno fatto una carriera strepitosa Andre Agassi (che ha rifiutato di prendere parte al film), Jim Courier, Aaron Krickstein, Jimmy Arias, Monica Seles, Mary Pierce, le sorelle Williams e la lista potrebbe andare avanti. Il punto è a quale prezzo. Ne esce la figura di un uomo le cui decisioni sono state spesso terrificanti, emotivamente incomprensibili, come lui stesso ammette. Alcuni “non ricordo” addirittura imbarazzanti, momenti che per lui oggi sono zero e che invece hanno segnato la vita di giovani promesse del tennis che lui è riuscito a spazzare via in minuti. Non ricorda addirittura il nome delle sue otto mogli. Quello che invece ricorda benissimo è la relazione speciale che ha avuto con Andre Agassi per oltre dieci anni, accogliendo nella sua Academy un ragazzino ribelle e pieno di rabbia e facendolo diventare un campione.
Il nocciolo del documentario è proprio lui, Agassi, che pur rifiutando di esserci, ha una presenza assolutamente pivotal in tutta questa storia. Tutto ruota intorno a un prima di Andre, con Andre e dopo Andre. La vittoria di Agassi nel 1992 a Wimbledon ha segnato per sempre la storia di entrambi in modo drammatico da un punto di vista emotivo. Nick “scarica” Andre, che rimane ferito, deluso, amareggiato e abbandonato da quello che considerava un padre. E’ una ferita ben narrata da Kohn attraverso la lettura di lettere e di dichiarazioni di Andre e dello stesso Bollettieri dove per la prima volta vediamo il lato emotional di questo inossidabile coach. Un uomo che ha scelto il tennis prima dell’amore o dei suoi stessi figli a volte, un life-coach che ha spesso fallito con la propria, uno squalo, un guru, ancora non sappiamo come definirlo, ma di sicuro è uno che ha ridefinito i rapporti tra coach/giocatori/famiglia e che in un certo senso ha cambiato la storia del tennis. E questo era quello che voleva. A discapito di tutto il resto. La cosa più incredibile è il messaggio finale di Bollettieri a sé stesso. “Io non penso, reagisco” dice per tutto il tempo “come sul campo da tennis. Non pensi se raggiungerai la pallina, reagisci e vai a prenderla”. Ma costretto da Kohn quasi per la prima volta nella sua vita a ripensare alla sua vita e alle sue decisioni conclude con uno sbalordente “Forse avrei fatto metà delle cose che ho fatto diversamente se avessi avuto la consapevolezza che girare questo documentario mi ha dato”.
I, Tonya di Graig Gillespie
Margot Robbie ha tutte le carte in regole per aggiudicarsi l’Oscar per aver interpretato in modo impressionante tutti gli aspetti della psiche di una degli atleti più controversi della storia dello sport americano. Nella versione cinematografica dello scandalo del 1994, l’attrice australiana è la pattinatrice su ghiaccio Tonya Harding. La celebre atleta finisce sulle pagine dei quotidiani di tutto il mondo con l’accusa di aver organizzato con la complicità del suo ex-marito Jeff Gilloly l’aggressione alla rivale Nancy Kerrigan. Durante una sessione di allenamento un uomo con un manganello della polizia la colpisce al ginocchio. Non c’è frattura ma la forte contusione costringerà la Kerrigan ad intraprendere un duro percorso di riabilitazione per riuscire a partecipare alle olimpiadi di Lillehammer, in Norvegia. In quegli anni Kerrigan stava diventando una delle pattinatrici più forti del mondo mentre la carriera di Harding sembrava già avviarsi verso il tramonto. Negli anni ’90 è l’unica americana a eseguire il “Triple Axel” che le consente di entrare nella squadra olimpionica e vincere la medaglia d’oro ai campionati americani di pattinaggio nel 1991. Ma nel 1992 Harding non va oltre il sesto posto ai campionati mondiali e l’anno successivo non riuscirà neppure a qualificarsi. Il caso ebbe un’attenzione mediatica spropositata. C’erano coloro che sostenevano Harding e chi chiedeva invece che fosse esclusa dalla squadra americana. “In America vogliono qualcuno da amare e poi vogliono qualcuno da odiare”, dice Robbie nel film,. “E vogliono che sia facile”.
Gillespie non è interessato a dimostrare se Harding è colpevole o meno. In perfetto equilibrio tra dramma e humour nero, il film racconta la storia personale di una “cattiva” ragazza che nonostante l’eccezionale talento non riesce a conquistare le giurie sportive perché non è abbastanza raffinata per i cliché di una disciplina rigorosa e spettacolare. Succube di una madre violenta che a suon di botte costringe Tonya a dedicarsi solo al pattinaggio nella speranza di un riscatto sociale e di un marito che la picchia nonostante dica di amarla, la pattinatrice maledetta compie sul ghiaccio acrobazie prodigiose per colmare i suoi immensi vuoti. Allora il film diventa una riflessione sull’amore. Quello che si riceve dai genitori, dai partner, da sé, dal mondo. E si finisce per fare il tifo per Harding, un outsider che si ritrova prima ad essere acclamata e protetta e poi marchiata per sempre con l’infamia. Una vittima perfetta da sacrificare sull’altare del circo mediarico che ha necessità di creare eroi e mostri per poter sopravvivere.
Ferrari: Race To Immortality di Daryl Goodrich
Uno dei temi portanti di questa 12esima edizione del Festival del Cinema di Roma, insomma, è lo sport. Tennis, basket, motori, maratona, pattinaggio… Agli organizzatori è piaciuto molto andare a scavare dentro miti e storie personali. Ecco quindi che il Mito Ferrari non poteva non essere presente. Il film/documentario Ferrari: Race to Immortality narra le vicende di una scuderia agli albori della sua storia, quando Enzo Ferrari era un businessman che diceva “Senza motori non avrei nessuna passione per la vita”. Sono gli anni ’50, la sicurezza dei piloti e delle macchine era nulla, quella del pubblico ancora meno. In un decennio sono morti oltre 30 piloti, per non parlare del pubblico sugli spalti. Eppure si correva senza la fama della televisione, senza lo spropositato denaro che circola oggi, ma senza dubbio con la stessa passione.
Peter Collins e Mike Hawthorn, due dei piloti inglesi della scuderia, rendono bene come l’amicizia al tempo venisse prima della vittoria, nonostante la competizione fosse feroce e l’adrenalina altissima. La figura centrale attorno al quale sviluppare il pensiero resta quella di Enzo, supportato nella sua totale dedizione alle corse da Luigi Musso ed Eugenio Castellotti, Il regista britannico Daryl Goodrich fa un eccellente lavoro di regia nell’assemblare un materiale d’archivio strepitoso, che terrà gli appassionati e i fans della Ferrari incollati allo schermo. E più di una volta si spalancherà la bocca in segno di totale incredulità.