E dopo quindici giorni di proiezioni, talk, Q&A, conferenze stampa al mattino e anteprime USA la sera, la 55° Edizione del New York Film Festival si chiude. In bellezza, possiamo aggiungere per l’Italia, soddisfatti.
Dopo la prima settimana con Luca Guadagnino e Call Me By Your Name, la seconda settimana è stata scandita da due eventi che hanno reso questo Festival memorabile, almeno per chi è appassionato di arte cinematografica e per chi è legato, per qualsivoglia motivo, all’Italia. Mercoledì 11 ottobre Vittorio Storaro, uno dei direttori della fotografia più rispettati — e rincorsi — sulla scena internazionale, ed Ed Lachman, suo “allievo” poi divenuto maestro egli stesso, sono stati protagonisti di una master class che ha registrato il tutto-esaurito, e ancora prima che il Festival iniziasse. In platea, oltre agli amanti del cinema e agli addetti ai lavori, tanti studenti delle tante scuole di cinema presenti a New York City. Guardarli in religioso silenzio, davanti ai due giganti della fotografia cinematografica mondiale infonde fiducia: forse il timor reverenziale non è morto con la nascita dell’io-io-io ragliato da ogni tipo di social media. Forse c’è ancora speranza.

Troppo lungo l’elenco dei film di cui Storaro ha firmato la fotografia. Ricordiamo la terzina per cui si è aggiudicato l’Oscar: Apocalypse Now, Reds e L’ultimo Imperatore. E ricordiamo il sodalizio professionale e umano con Bernardo Bertolucci, con cui collabora sin dal 1970. Ed Lachman, dal canto suo, ha lavorato con registi del calibro di Werner Herzog, Wim Wenders, Steven Soderbergh, Robert Altman, Todd Haynes e Sofia Coppola, curando la fotografia di film come Erin Brockovich, Lontano dal paradiso, Carol, Il giardino delle vergini suicide. Se Storaro è presente al NYFF55 per accompagnare Wonder Wheel, l’ultima fatica di Woody Allen — la cui uscita nelle sale è prevista per dicembre — è di Todd Haynes l’opera di cui Lachman ha curato la fotografia — Wonderstruck — presente nel Main Slate del Festival.

In realtà Storaro e Lachman parlano poco dei loro ultimi due lavori. Si soffermano piuttosto sui loro maestri, e sulle loro posizioni nei confronti della fotografia cinematografica che li trova vicini su alcuni punti, ma lontani su altri.
“Charlie Chaplin”, confessa Storaro quando il moderatore chiede dei loro mentori. “Mio padre lavorava come proiezionista. Un giorno portò a casa della pellicola e un proiettore mezzo rotto. La sera, in cortile, su una parete bianca, proiettammo Luci della città. Non volevo guardare altro”.
Lachman sceglie un guru tutto italiano. “Vidi Umberto D, e m’innamorai dell’idea di poter costruire un film con le immagini, come faceva De Sica con la vita del suo protagonista”. Sorride la platea davanti allo scambio: Storaro sceglie un mito americano e Lachman uno italiano, aggiungendone un secondo. “Da Antonioni ho appreso il potere dell’immagine, e la sua capacità di raccontare una storia. Attraverso le immagini, puoi capire cosa succede fra i personaggi — come in L’avventura”.
Storaro continua il suo racconto. “Mi sono sempre rifiutato di occuparmi di fotografia, fino al 1968, quando terminai il mio primo film. E piansi. Era una sorta di perdita dell’innocenza. Poi da lì prese avvio il mio viaggio con Bertolucci”.
Lachman interviene per raccontarci come conobbe Storaro. “Scrissi la mia tesi di laurea su Prima della rivoluzione di Bertolucci, film che vedeva Vittorio come assistente di riprese sul set. Venni qui al Lincoln Center al lancio del film, e incontrai entrambi. La nostra amicizia nacque lì”. E aggiunge, con emozione e gratitudine, “Vittorio ha fatto per l’arte della fotografia cinematografica più di chiunque altro nel settore”.

Fanno da corollario agli interventi dei due direttori degli spezzoni tratti da film che li hanno formati. Vediamo Quarto potere, fonte d’ispirazione per Storaro, suggeritogli da Bertolucci. “Quarto potere mi ispirò molto. I personaggi, in molte scene, sono simboli, sagome nere, che dividono il presente — luce — dal passato — buio. E da lì ho cominciato a interrogarmi sulla dualità tra luce e tenebra. Inconsciamente, questo mio interrogativo si è materializzato nella fotografia dei film che ho curato. E ne rintraccio l’origine in un episodio che mi accadde mentre giravamo Il conformista. Un giorno, finite le riprese, entrai con mia moglie nella Chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, e vidi La Vocazione di San Matteo di Caravaggio. E lì, davanti a quel quadro, capii che tutto era legato alla divisione tra luce e buio. Il mio lavoro è stato segnato da quel dipinto, e, più in generale, dalla dualità che si genera fra due forze opposte, che possono essere luce e ombra, uomo e donna, bene e male, giorno e notte. Lo si vede bene per esempio in Il

conformista, nella scena che chiamo ‘delle veneziane’, tra Stefania Sandrelli e Jean-Louis Trintignant, un contrasto reso ancora più evidente dal vestito a righe di Stefania. Questa separazione tra luce e ombra riflette una doppia scissione all’interno di Marcello, il protagonista del film: nei confronti del Fascismo e della sua omosessualità. Leonardo da Vinci sosteneva che dal matrimonio fra luce e tenebra nasce l’ombra. Se pensiamo alla riproduzione delle ombre su una parete, riandiamo a Platone e al mito della caverna, e al cinema stesso. Il cinema non ha nulla a che vedere con la realtà — non credete al cinéma verité! Il cinema è interpretazione”.
Lachman, di contro, si sofferma sul potere psicologico dell’immagine. “Nelle immagini risiede il sottotesto di una storia. Per me sono come musica: un modo non-verbale di esprimere emozioni. La fotografia è un mezzo psicologico, non mimetico-rappresentativo. Anche i colori, come si può vedere in alcune scene di Lontano dal paradiso, sono uno strumento psicologico”.

Quando la parola ritorna a Storaro, mostra al pubblico due stampe a lui molto care. L’annunciazione e L’ultima cena di Leonardo da Vinci. “Sono il manifesto del Rinascimento. Ne L’ultima cena Leonardo ha messo l’essere umano — Gesù — nel mezzo. E tutti distano in egual misura da Lui, dal centro. Perseguiva quello, l’artista: la ricerca dell’equilibrio. Una ricerca che sento mia, e che perseguo anch’io in ogni film. Trovare l’equilibrio fra gli opposti, fra la luce e l’ombra, ponendomi quesiti, scoprendo nel frattempo chi sono. Sono grato al cinema, ovvero la lingua delle immagini, perché mi dà la possibilità ogni volta, di capire qualcosa di me stesso, e sono sempre pronto ad affrontare l’ignoto quando inizio a lavorare a un film — anche se non piango più, quando lo finisco! Oggi come non mai abbiamo bisogno di questo. Di consapevolezza. Ma anche sogni, amore, ispirazione”.
I due divergono sul punto molto controverso del digitale nella fotografia cinematografica. Se Storaro ne ha accettato l’uso, come testimoniano Café Society e Wonder Wheel — “la guerra tra digitale e non digitale non porta da nessuna parte. L’idea, il concetto rimane lo stesso. E’ solo il supporto che cambia”, afferma — Lachman si colloca sul versante opposto. “Non credo che sia possibile girare ogni tipo di film con un supporto digitale. Personalmente, cerco di rimanere fedele al mezzo fotografico. Non voglio che i nostri pennelli limitino le nostre storie”.

Per quanto riguarda Wonder Wheel, il film di Woody Allen ambientato a Coney Island, Storaro ci racconta del suo shock quando scoprì quest’area di Brooklyn. “Ancora una volta la dualità! Coney Island è una cittadina reale, piena di lavoratori, di orari, ma ospita al suo interno un regno di fantasia — il luna park, le giostre, la ruota panoramica. E il film di Allen ne replica la struttura. E’ una storia che parte come una commedia, ma finisce in un dramma. Mi sono lasciato ispirare, in questo, da Norman Rockwell, un pittore dalle forme molto pulite, ordinate e leggere in superficie, ma che nascondono temi profondi e complessi”.
Riguardo al film, che abbiamo visto in anteprima per la stampa, confermiamo le parole di Storaro, e la commedia dura ben poco. Wonder Wheel unisce il sapore amaro di Blue Jasmin, a quello nostalgico di Café Society recuperando un tocco di moralità da Match Point.

L’ultimo mattatore italiano che ha tenuto banco al Lincoln Center è stato Abel Ferrara, che venerdì 13 ottobre ha presentato il documentario Piazza Vittorio alla platea del Walter Reade Theater. Il figlio ribelle del cinema indipendente newyorkese che ha scelto la piazza romana come patria d’elezione ha realizzato un documentario di poco più di un’ora in cui è riuscito a riassumere la questione dell’immigrazione a livello locale e globale, l’identità italiana messa a rischio dai flussi migratori, l’istinto di apertura dell’animo italiano verso l’accoglienza ma la frustrazione di convivere con situazioni al limite della decenza. Gli attori non sono attori. Sono tutti residenti che abitano, più o meno legalmente, Piazza Vittorio, un porto di mare a cui approdano migranti da Africa, Cina, Bangladesh, Europa dell’Est, Italia del Sud. Ma anche America, come nel caso del regista stesso, che ormai abita nella capitale da un ventennio, e l’attore Willem Dafoe, che ha fatto la stessa scelta di Ferrara e vive tra Piazza Vittorio e New York City. Piazza Vittorio è lo spazio dove la convivenza multietnica finisce e la giungla comincia.

“Mi meraviglio di come non ci si ammazzi l’un l’altro”, commenta, tra candore e spietata ironia, Ferrara, che in tutto il tempo del Q&A ha fatto amabilmente dannare la moderatrice del Lincoln Center con la sua irrequietezza, e divertire molto il pubblico. “E’ bello essere qui al Lincoln Center… Ci si sente a casa. E mai avrei pensato di sentirmi a casa al Lincoln Center. Né di sentirmelo dire…”. Ma quando c’è da essere seri, Ferrara è serissimo. “Dedico la visione di questa sera a Tommaso Borgstrom, direttore della fotografia del documentario, che è venuto a mancare una settimana fa. E ringrazio il mio montatore, Fabio Nunziata, un talento straordinario, insieme alla mia troupe con cui giro in Italia da dodici anni”.
A fine proiezione Ferrara incoraggia i pareri dalla platea più che le domande. E’ curioso, realmente curioso, di sapere cosa ne pensa il pubblico, e tende, per questo, a liquidare le domande — specie quelle impostate, o la cui risposta sarebbe più di forma che di sostanza.
“Sono un regista politico. Non potrei essere altro. Devi essere impegnato. Tutti lottiamo là fuori, che sia Piazza Vittorio o New York City.” E tira in ballo i prezzi esorbitanti di questa città, dai pomodori al mercato in Union Square, agli affitti “fuori di testa”.
Tra i tanti film visti, non possiamo non citare Arthur Miller: Writer il bel documentario su Arthur Miller girato dalla figlia Rebecca, che ripercorre la storia del padre, ma senza -ismi — sentimentalismo, didascalismo, trionfalismo. E naturalmente il documentario dell’anno, Faces Places, di Agnès Varda e JR: un viaggio in giro per la Francia intrapreso da una regista di 88 anni insieme a un artista trentaduenne, alla ricerca di volti da fotografare, ingigantire e affiggere lungo il loro percorso. Un’iniziativa di rara poesia che sfocia in un prodotto cinematografico dal grande valore teorico-esistenziale, sia sulla poetica della grande regista francese, che del giovane e talentuoso artista suo connazionale.
A questo punto, allineandoci a una città sempre avanti come New York City, non rimane che chiederci quali sorprese riserverà il NYFF 2018.