Il weekend della Mostra del Cinema di Venezia definisce da tradizione il giro di boa della manifestazione, proiettando il festival nella seconda settimana. Tempo quindi di primi bilanci e riflessioni, anche se il concorso ha ancora tanto da offrire (due italiani su quattro e poi Kechiche, Aronofsky, Kore-eda) e altrettanto anche le sezioni cosiddette “minori”, ma già possono essere impostate le coordinate per i primi bilanci. Iniziamo col dire che gli unici veri flop della sezione principale sono – per ora – il documentario ai Ai Weiwei, Human Flow, di cui abbiamo già parlato nei giorni scorsi, e Una famiglia di Sebastiano Riso, secondo italiano in concorso. Qualità medio-alta, quindi, ma poco coraggio: anche nei risultati migliori, infatti, sembra mancare la voglia di sperimentare e di rischiare e al momento il concorso è parso per vari motivi un po’ “vecchio”, con film che arrivano “in ritardo” sui tempi (Suburbicon e Lean on Pete) o che scelgono schemi convenzionali (The Leisure Seeker e The Shape of Water). Dopo il gioiello iniziale di Paul Schrader (First Reformed), i film più interessanti sono stati senza dubbio La villa di Guédiguian, Ex Libris di Wiseman e Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, di Martin McDonagh, che per motivi diversi e in modi completamente differenti riescono a cogliere prospettive originali della complessità dei tempi in cui stiamo vivendo.
La mente a destra, il cuore a sinistra: La villa di Robert Guédiguian

In una località di mare vicino a Marsiglia tre fratelli di mezza età si ritrovano al cospetto del padre, colpito da ictus. Un tempo il piccolo villaggio era un luogo animato dalle febbrili idee rivoluzionarie del genitore e di un’intera generazione, ideali trasmessi ai figli insieme alle vacanze a prezzi popolari, libertà, anticonformismo: una piccola insenatura simbolicamente separata dal resto del mondo dalla ferrovia e al centro la grande villa e il ristorante di famiglia, intorno solo qualche casa. Ora il luogo è deserto, le “nuove abitudini” del turismo l’hanno svuotato e non una, ma due generazioni di speranze e illusioni si ritrovano a fare i conti con le proprie macerie, dovendosi rapportare con giovani che parlano una lingua incomprensibile (“la lingua dei padroni”, dirà uno dei personaggi più anziani) e che li guardano con stupore fiabesco quando sentono nominare la “classe operaia”. Il regista franco-armeno Robert Guédiguian riflette sul tempo e sui tempi: la difficoltà di accettare lo scorrere del primo e l’impossibilità di comprendere il mutamento dei secondi (tutti oggi abbiamo “la mente a destra e il cuore a sinistra”, dice uno dei tre figli, il professore militante Joseph). Il prodigio del film è la leggerezza del discorso, che rimanendo lontano da una sterile nostalgia si snoda con disincanto e malinconia. Alla fine del film vengono rinvenuti e salvati tre piccoli migranti nel bosco: i vecchi ideali di sinistra forse non hanno portato la rivoluzione, ma sono ancora lo sguardo più umano per capire la disperazione.
Ex Libris, di Friederick Wiseman

Dalla sede centrale sulla 5th Avenue (poche centinaia di metri prima della Trump Tower) alle varie succursali dislocate nei differenti quartieri della città, la Public Library di New York è un’istituzione che si dirama nella Grande Mela come una sorta di sistema circolatorio, portandole linfa vitale e ossigeno. Non solo montagne di libri, prestiti e consultazioni: la Public Library, ci racconta Wiseman, è un’avanguardia nella lotta contro il “digital dark”, promuove la modernità, presta router portatili a chi ne ha bisogno, supporta in vari modi le attività di ricerca dei cittadini.
L’ottantasettenne Wiseman è forse, oggi, l’unico vero “documentarista teatrale”, che a ogni inquadratura sceglie con nettezza (anche morale) un punto di vista e non lo varia mai, finendo per fare un cinema politico di una forza portentosa: dilata i tempi, ottiene un’incredibile “eclissi” del narratore, limita il montaggio a pochi ma efficacissimi tagli, annulla qualsiasi commento sonoro extradiegetico.
In questi tempi bui, il suo splendido ultimo lavoro racconta “l’altra” America, quella che continua a lavorare per l’inclusione, l’integrazione e a quei valori non così popolari presso l’attuale inquilino della Casa Bianca e i suoi elettori.
American Heart of Darkness
Tolto Wiseman, la compagine dei film americani in concorso sembra indicare come i selezionatori di Alberto Barbera abbiano dato spazio soprattutto a quei titoli che raccontano la spirale di violenza, rabbia, frustrazione e razzismo che ha segnato gli ultimi eventi della politica americana.
L’America incapace di guardarsi dentro, che crea istericamente nemici immaginari è il soggetto di Suburbicon, nuovo moral play di Clooney. Due situazioni vengono raccontate in parallelo: in un paradigmatico borgo di provincia degli anni ’50 si trasferisce una famiglia di afro-americani. La comunità bianca, che ha sempre bisogno di un bersaglio “esterno” per non mettere mai in discussione il proprio compatto conformismo, la prende di mira in modo selvaggio. Intanto, all’interno di una di queste perfette famiglie wasp, senza che nessuno se ne accorga, si consuma una tragedia.

Suburbicon, di George Clooney, si basa su uno script firmato Joel ed Ethan Coen. L’ingranaggio narrativo naturalmente funziona, anche se, tra il “già visto” (Fargo riecheggia molto spesso, ed era tutt’altra ispirazione) e un bel po’ di “ovvio”, il congegno a tesi del team Clooney/Coen appare spesso un po’ “grossolano”. Si ride amaro dell’ipocrita everyman interpretato con diligenza da Matt Damon, ma rimane la sensazione che la complessità dei tempi richieda ben altra complessità di discorso.
Complessità che caratterizza, invece, Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, di Martin McDonagh, regista che aveva esordito una decina d’anni fa con In Bruges e si era poi un po’ perso con il secondo lungometraggio, 7 psicopatici. Al terzo film, il regista britannico fa centro, anche e soprattutto grazie a un cast eccellente, con tre attori – Frances McDormand, Sam Rockwell e Woody Harrelson – letteralmente in stato di grazia.
Potrebbe sembrare un classico film di vendetta: una donna, la cui figlia è stata stuprata e uccisa poco fuori Ebbing, in Missouri, dopo un anno di indagini insoddisfacenti, fa sistemare tre grandi cartelloni pubblicitari fuori dalla cittadina con altrettanti provocatori messaggi rivolti alla polizia. Obiettivo:riportare il caso al centro dell’opinione pubblica. Ci riuscirà, ma ogni passaggio in questo film dallo schema libero e sorprendente è tutt’altro che scontato.
Permeato di uno humour nero ghignante e irresistibile, Three Billboards è caustico nel modo in cui problematizza il machismo americano e il rapporto tra il singolo e le istituzioni ed è uno dei migliori film passati da questo concorso veneziano. Da urlo, come detto, i tre protagonisti: la madre in cerca di giustizia è interpretata da una strepitosa Frances McDormand, lo sceriffo disincantato da un superlativo Woody Harrelson, mentre un irresistibile Sam Rockwell è il maldestro ed edipico poliziotto razzista Jason.

L’Italia in gara
Paolo Virzì è uno dei più bravi e intelligenti autori di commedie del cinema italiano ed è un grande paradosso che il concorso veneziano gli apra le porte solo ora e solo in occasione della sua prima produzione americana. The Leisure Seeker è ancora uno stralunato road movie, come La pazza gioia: protagonisti sono Ella e John, anziani coniugi malati, lei di cancro, lui di demenza senile, che con il loro storico e antiquato camper (Il Leisure Seeker, appunto) partono per un viaggio verso la casa di Hemingway, meta che John, professore di letteratura, avrebbe sempre desiderato visitare.
Gioca in difesa, Virzì, per il suo esordio internazionale, e lo fa con ammirabile intelligenza, perdendo, però, molta di quella verve che caratterizza le sue migliori commedie. Opta per due attori eccellenti come Donald Sutherland e Helen Mirren e costruisce per loro e su di loro, insieme a Stephen Amidon, Francesca Archibugi e Francesco Piccolo, due personaggi perfetti, divertendo e commuovendo senza mai sfiorare il patetico.

Un flop, invece, Una famiglia di Sebastiano Riso, che entra nel concorso principale dopo il discreto esordio di tre anni fa nella Semaine de la Critique di Cannes (Più buio di mezzanotte), con un greve e urlato film sul “mercato nero” dei neonati a Roma. Micaela Ramazzotti e Patrick Bruel non convincono praticamente mai.