Il festival di Cannes da poco andato in archivio è stato indubbiamente il più deludente degli ultimi anni. Come lo scorso anno, anche questa 70ª edizione non ha visto film italiani in concorso, assenza compensata però da un nutrito manipolo di giovani autori nelle sezioni collaterali. Hanno brillato particolarmente due giovani cineasti presenti nella Quinzaine, Jonas Carpignano, regista di A Ciambra, e Roberto De Paolis, che ha presentato Cuori puri, il suo esordio.
Dopo i buoni riscontri sulla Croisette, Cuori puri è uscito in questi giorni nelle sale italiane, ben accolto da pubblico e critica. Il film, scritto dallo stesso De Paolis insieme a Luca Infascelli e Carlo Salsa, racconta dell’amore tra la diciottenne Agnese, ragazza cresciuta con una madre molto religiosa in un gruppo oratoriale che intende arrivare vergine al matrimonio, e Stefano, un borgataro di Tor Sapienza, con una famiglia problematica, che lavora nel parcheggio di un supermercato confinante con un campo rom.
Abbiamo fatto due chiacchiere con il regista, Roberto De Paolis, e gli attori, Selene Caramazza e Simone Liberati, tutti al loro lungometraggio d’esordio.
Innanzitutto complimenti a tutti voi per questo esordio fantastico. Roberto, puoi raccontare ai nostri lettori il percorso che ti ha portato fino qui a Cannes?
Roberto De Paolis: Grazie Simone. Sì, certo, ho iniziato a Londra, come fotografo e poi come video artista, diciamo. Da qui, ho fatto due cortometraggi (Bassa marea nel 2010 e Alice nel 2011, ndr) che sono stati presentati al Festival di Venezia, che mi hanno spinto a decidere di fare un lungometraggio e piano piano, in tre o quattro anni, sono riuscito a metterlo in piedi a farlo e ora è pronto.

A questa storia come sei arrivato?
Roberto De Paolis: A questa storia sono arrivato attraverso fatti di cronaca avvenuti in questo quartiere di Tor Sapienza che è un posto di Roma, nella periferia est, un po’ difficile perché ci sono due grandi campi rom e due grandi campi di accoglienza. La parte est di Roma va verso l’Abruzzo, le Marche, non c’è il mare, c’è solo la terra ed è proprio un imbuto. Avevo sentito di una ragazza che aveva detto di essere stata violentata da due rumeni, anche se non era vero. Poi tutto questo si è tramutato in una sorta di vendetta del quartiere contro un centro di accoglienza di profughi nordafricani, un’azione completamente priva di senso. Abbiamo provato a capire che cosa fosse successo e abbiamo deciso di spendere molto tempo in questo quartiere, prendendo un piccolo appartamento con gli sceneggiatori e lì abbiamo conosciuto tante persone, italiani con problemi di lavoro, di disoccupazione, di rapporti con gli immigrati. Un po’ per caso, siamo anche entrati in una comunità cattolica in cui ho conosciuto dei ragazzi che stavano in un programma per arrivare vergini al matrimonio. Abbiamo iniziato a scrivere il film mettendo insieme questi due mondi.
La cosa che mi ha colpito del tuo lavoro è come tu sia riuscito ad evitare gli stereotipi, pur raccontando una storia che correva il rischio di incontrarne tanti: sui rom, sui ragazzi cattolici, sui volontari, sulla famiglia del protagonista, su quelli che potremmo chiamare i “borgatari”.
Roberto De Paolis: Penso e spero di sì. Se ci sono riuscito è perché ho lavorato mettendomi dal punto di vista dei protagonisti: abbiamo cercato di raccontare la Chiesa secondo il punto di vista della ragazza, cioè un luogo in cui lei si sente protetta è in cui vede nella figura del prete una sorta di riferimento paterno. Abbiamo cercato di raccontare i rom attraverso il punto di vista del protagonista maschile. I rom sono descritti effettivamente come molto provocatori, perché lui li vede così, perché lui ne ha paura.
Un altro aspetto che mi ha colpito molto è proprio l’assenza delle figure paterne. Il padre di lei non viene mai nominato. Il padre di lui c’è ma è come se non ci fosse.
Roberto De Paolis: Credo che alcune scelte arrivino un po’ inconsapevolmente: non è che con gli sceneggiatori abbiamo pensato di escludere la figura paterna perché in qualche modo questo poteva raccontare che nella contemporaneità la figura paterna è venuta a mancare o simili. Evidentemente è venuta fuori anche da sensazioni personali, storie personali nostre, un po’ inconsciamente dalla mia vita è da quella degli sceneggiatori. È molto istintivo anche il lavoro di sceneggiatura, ma credo che nel nostro gruppo di sceneggiatori tutti avevano qualche problema con la figura paterna e alla fine sono usciti due padri come hai detto tu uno completamente assente e uno quasi assente anche se non lo è fisicamente.
Come hai individuato i due attori protagonisti?
Roberto De Paolis: Abbiamo fatto un lungo casting e loro, oltre a essere molto bravi come attori, erano anche i due più disponibili a fare quel lavoro di ricerca che ho fatto io personalmente e un po’ pretendevo che facessero anche loro. Sono stati poi molto disponibili a improvvisare tanto, cosa per me fondamentale perché altrimenti saremmo tutti morti di noia se loro avessero recitato le battute che erano scritte nel copione. Ecco, il film ha poi preso questa direzione, con portare la macchina a mano perché ovviamente non sapevamo mai dove andavano a finire è non ci era possibile soprattutto lui chiuderlo in un’inquadratura o fargli rispettare una luce, quindi abbiamo eliminato le luci artificiali. È bello anche questo modo che poi una scelta ne porta un’altra ed è di nuovo una processo creativo che non puoi controllare in alcun modo.
Selene, come è stato il lavoro di preparazione?
Selene Caramazza: All’interno della comunità sono stata per circa quattro mesi. Ho ripreso di nuovo a leggere il Vangelo, la Bibbia, non mi andava di simulare una fede, volevo qualcosa di sincero. Ho iniziato a percepirlo nel momento in cui sentivo quasi una sorta di invidia positiva nei confronti degli altri ragazzi della comunità. Quel punto è arrivato a poche settimane dall’inizio delle riprese.
Tu Simone?
Simone Liberati: Io ho trascorso un lungo tempo a Tor Sapienza, dentro quelli che vengono chiamati a Roma “i Palazzoni”, le case popolari su Viale Morandi. Ho cercato il più possibile di stare a contatto con quella realtà, frequentando un sacco di ragazzi, una realtà per me ancora sconosciuta.

Com’è stato il rapporto con i ragazzi di Tor Sapienza?
Simone Liberati: Ottimo, sia con i ragazzi delle case, sia con i ragazzi e le persone delle comunità nomadi, che sono stati molto disponibili al racconto. Erano contenti del fatto che volessimo capire senza giudicare, non volevamo fermarci ai cliché, agli aspetti esteriori, ma volevamo capire la realtà di quel quartiere e delle sue dinamiche complicate.
Abbiamo fatto un sacco di domande, cercavamo di parlare il più possibile con le persone che incontravamo, con le famiglie, con i più giovani: abbiamo capito che volevano proprio raccontare ed essere capiti, essere letti in una maniera diversa da quella che poi i media raccontano attraverso le cronache.
Selene, il personaggio di Agnese ha un rapporto molto problematico con sua madre, che a volte è ‘troppo presente’, quasi volesse rivivere la giovinezza attraverso quella di sua figlia ed evitare di commettere gli stessi errori.
Selene Caramazza: Quello di Marta nei confronti di Agnese a volte è il troppo amore che diventa quasi ossessivo, una mania di controllo, proprio per cercare di non far commettere alla figlia i propri sbagli, è una sorta di protezione che diventa in realtà una catena e che porta Agnese ad essere bloccata.
Penso che lo spettatore percepisca questo probabile fallimento nella vita precedente della madre di Agnese, che di tutelare la figlia, di proteggerla da questo mondo, perché a un certo punto inizia a percepire il fatto che Agnese sta crescendo e si sta avvicinando al mondo degli adulti.
In questo racconto di formazione, Simone, il personaggio di Stefano mi è sembrato, davanti ai rom, come ‘allo specchio’, come se avesse paura di finire come loro, cioè di finire ‘al di là’ del cancello.
Simone Liberati: È proprio quello, è esattamente quello. Poi il parcheggio è anche un luogo abbastanza simbolico per Stefano perché è poi lì che si consumano tutte le sue paure: davanti ha quel mondo dei nomadi, un mondo che non conosce e già basta a spaventarlo, in più riconosce nelle roulotte del campo la roulotte in cui si trovano i genitori; ha paura di perdere il lavoro, di perdere dei soldi, di perdere una casa e di finire per strada anche lui, quindi è qualcosa che sente prossimo, ed è una realtà che non gli piace perché la percepisce come degradata, la rifiuta e si accanisce contro questa, le abbaia contro.
Oltre a questi due giovani e bravissimi attori e oltre a Barbara Bobulova, il film può contare su un’eccezionale performance di Stefano Fresi.
Roberto De Paolis: Sì, è stato un miracolo, era l’unico attore possibile per un ruolo così complicato, in cui hai tre scene, tre monologhi e parli di teologia applicata per ragazzi. Lui è riuscito a infondere quel grado di ironia, veramente perfetto. Io temevo poi che lui non accettasse, perché è un attore anche abituato a film più grandi, invece lui è stato molto disponibile. Tra l’altro il suo prete è ispirato a un prete che realmente io ho conosciuto, che credo rappresenti un po’ una nuova linea della chiesa, quella di sviluppare un linguaggio un po’ più accessibile ai giovani usando anche l’ironia, spesso le barzellette, gli aneddoti. Fresi è venuto in chiesa con me a sentirlo e poi ha costruito il suo personaggio, anche lui con enorme disponibilità. Insomma questo spirito di ricerca ha coinvolto tutti.