Uno spettro si aggira per il mondo: lo spettro dell’intolleranza e dei suoi molteplici volti. Questo è il messaggio che ci consegna questa 67ª edizione della Berlinale, come sempre il più politico dei festival internazionali: politico perché la selezione di Kösslich e del suo staff compie, anche quest’anno, un “atto” che è, in sé, profondamente “politico”, come quello di riannodare il filo che lega alcune parole svuotate di senso al significato più profondo di esse. Termini come intolleranza, barriere, immigrazione, che nella loro barbara e volgare reiterazione appaiono significanti vuoti, vengono di nuovo riempiti di senso dalla coraggiosa ed estesa proposta della Berlinale 2017. Attraverso una sorta di controcampo del mondo il Festival di Berlino ci ha invitato a guardare per la prima volta situazioni che siamo convinti di vedere ogni giorno e ha sottolineato come queste ci ri-guardino più di quanto pensiamo.
Questo percorso, che è sicuramente più importante dei premi, dei red carpet e delle singole valutazioni delle opere che abbiamo visto, è passato attraverso film dalla qualità a volte altalenante e ha mostrato una costante riabilitazione dell’ideologia, messa in scena come uno strumento necessario per districarsi nel labirinto destrutturato dell’attualità.
Un mondo in frammenti, contraddittorio, fatto di estremi che sembrano ormai inconciliabili, segnato da divisioni sociali abissali, percorso da tensioni che non accennano a stemperarsi e soprattutto governato da soggetti che appaiono privi delle categorie per interpretarlo. Le sezioni della rassegna hanno raccontato, in modi, discorsi e contesti storici diversi, l’esclusione e l’urgenza.
Sui premi, come sempre, si può discutere e si discuterà. Ha vinto il film migliore? Sicuramente l’ungherese Testről és lélekről (On Body and Soul) della regista Ildikó Enyedi è un bel film, intelligente e raffinato, ma effettivamente la scelta di Paul Verhoeven e degli altri giurati ha spiazzato un po’ tutti e ancor di più lo ha fatto l’inclusione nel palmares (Premio speciale Alfred Bauer) di Pokot (Spoor) di Agnieszka Holland. L’insieme dei premiati è decisamente al femminile: oltre a Enyedi e a Holland, giustissimo il premio per il miglior contriburo artistico allo straordinario montaggio di Dana Bunescu per il bellissimo Ana, mon amour di Călin Peter Netzer. A partire dai premi di questa Berlinale, proviamo a raccontarvi un po’ di ciò che abbiamo visto.
Sezione principale – Wetterweb
Orso d’oro
Testről és lélekről (On Body and Soul), di Ildikó Enyedi

Difficile non pensare al bellissimo Toni Erdmann guardando questa intelligente e originale commedia ungherese che, un po’ contro pronostico, si è aggiudicata il premio più importante della 67ª edizione della Berlinale. Vuoi perché anche questo racconta la ricongiunzione di una donna apatica con la sua parte desiderante, vuoi per il registro surreale e delicato che mantiene con equilibrismo di scrittura notevole, vuoi anche per la rete di simboli, onirici e non solo, che viene costruita intorno alla vicenda principale. Vicenda che è una storia d’amore tra il direttore di un macello, uomo solitario e cordiale che ha un braccio paralizzato, e della nuova responsabile della qualità, con i sentimenti paralizzati. Tra mucche rassegnate, carni macellate, operai, sguardi e sogni, i due impareranno a leggere, dentro e fuori, i segni del loro amore. Un film profondamente psicanalitico e delicatamente leggero e indulgente verso i suoi personaggi.
Orso d’argento, miglior regia
Tovon tuolla puolen (The Other Side of Hope), di Aki Kaurismäki

per “Toivon tuolla puolen” (“The Other Side of Hope”)
Come nel precedente Miracolo a Le Havre, Kaurismäki inizia a raccontare la sua poetica storia di reietti e poesia da un porto, questa volta a Helsinki: da una montagna di carbone emerge un profugo siriano, nemmeno trentenne, il volto annerito e spaesato. La sua parabola, fatta di speranza e di burocrazia contraddittoria e paradossale, si incrocia con quella di un anziano finlandese che ha lasciato moglie e lavoro per aprire un improbabile ristorante, gestito da un personale ancora più improbabile. Tra colori accesi, scenografie seventies e irresistibili siparietti comici e surreali, Kaurismäki esprime in modo magistrale il suo rispettoso umanesimo e celebra l’uguaglianza tra gli individui con il consueto rigore estetico: tutti i suoi personaggi meritano rispetto e quindi un posto centrale nelle geometrie assolute delle sue inquadrature. L’altro lato della speranza passa semplicemente dall’uguaglianza tra gli esseri umani.
Premio speciale della giuria
Felicitè, di Alain Gomis
Cinque anni fa Alain Gomis aveva portato alla Berlinale Aujourd’hui; oggi torna con un racconto decisamente più sussurrato, che riprende la relazione tra volti e musica che da sempre caratterizza i suoi lavori e che mescola suoni, poesie, voci, sguardi. Ambientato a Kinshasa, in Congo, racconta di una cantante che si esibisce con discreta fortuna in un locale della capitale congolese. Un incidente al figlio, a cui amputano una gamba, e l’incontro con uomo all’apparenza sbandato le cambieranno la vita. Nonostante una certa tendenza alla prolissità, il regista franco-senegalese, al suo quarto film, mostra nuovamente il suo talento, nell’opera forse più riuscita della sua carriera. Straordinaria la protagonista Véro Tshanda.
Premio speciale Alfred Bauer
Pokot (Spoor), di Agnieszka Holland
Agnieszka Holland si è presa una lunga pausa dal cinema, pausa che ha “riempito” dirigendo diversi episodi di serie televisive, negli Stati Uniti e in Europa. Ora torna al grande schermo con un contorto e prolisso dramma nazi-vegano: in un paesino di cacciatori fra le montagne polacche, si verificano misteriosi omicidi, mentre un’anziana signora, animalista convinta, conduce la sua battaglia per fermare l’uccisione di volpi e cervi. Improbabile nell’intreccio, troppo leccato e piatto per suggerire una dimensione simbolica, Pokot è un drammone televisivo (nell’accezione peggiore di questo termine), piatto e noioso, che si smonta come un giocattolo nel macchinoso ed estenuante finale.
Premio per la miglior sceneggiatura
Una mujer fantastica (A Fantastic Woman), di Sebastian Lelio
Un’inquadratura: a metà del film, Marina, la donna transessuale protagonista del film, viene picchiata dal figlio del suo compagno defunto e dai suoi brutali amici. Il suo volto viene avvolto dallo scotch, fino a renderle impossibile parlare. Una volta liberatasi dai tre violenti, Marina si specchia nel finestrino di una macchina: per la prima volta prende coscienza di come lo sguardo dell’altro la percepisca: vede un volto deforme, mostruoso. Film prodotto Pablo Larrain e diretto dall’ottimo Sebastian Lelio che si era fatto notare proprio qui a Berlino nel 2013 con Gloria. Una Mujer Fantastica racconta magistralmente la battaglia di Marina per rimettere al centro dello sguardo dell’altro la sua realtà di donna.
Miglior attrice
Kim Minhee in Bamui haebyun-eoseo honja (On the Beach at Night Alone), di Hong Sangsoo
Il bellissimo nuovo film di Hong racconta due momenti nella vita di una giovane donna all’indomani della fine di un amore. Una struttura narrativa in due segmenti, senza chiarire in che relazione temporale esse siano. Il tempo che interessa al regista coreano è quello interiore, quello che serve per chiarire quale possa essere il proprio rapporto con il mondo durante l’elaborazione del lutto. Film sussurrato, apparentemente semplice ma in realtà ricco di sottotesti e di tracce importanti, On the Beach at Night Alone si regge anche e soprattutto grazie alla prova straordinaria di Kim Minhee, che proprio come il film riesce a suggerire il suo tormento interiore sotto un apparente serenità.
Miglior attore
Georg Friedrich in Helle Nächte (Bright Nights), di Thomas Arslan
Uno dei film “padroni di casa”, certamente non un’opera memorabile. Un padre e un figlio adolescente dal rapporto difficile si ritrovano a fare una vacanza insieme immersi nella natura luminosa della Norvegia estiva, nelle settimane in cui la notte non arriva mai. La luce perenne diventa il correlativo oggettivo della chiarezza che i due, in modi diversi, cercano per ritrovare un modo di comunicare e capirsi. A tratti la sceneggiatura non regge, ci sono situazioni forzate e svolte pretestuose, eppure il carisma di Georg Friedrich, giustamente premiato con il premio come miglior attore, riesce a tenere in piedi il racconto.
Miglior contributo artistico
Dana Bunescu per il montaggio di Ana, mon amour di Călin Peter Netzer
Toma e Ana si sono conosciuti all’università, hanno vissuto un amore travagliato che ora è finito. Lo apprendiamo subito, nelle prime scene, quando Toma, invecchiato e un po’ stempiato, parla con uno piscanalista. Il racconto di Călin Peter Netzer ha in effetti l’andamento della seduta di psicoanalisi: si procede in un flusso di parole apparentemente destrutturato che in realtà segue il filo saldo dell’inconscio, dell’associazione di idee, della rimozione e della riemersione. Sullo sfondo di questo amore che i disturbi mentali di Ana trasformano in un gioco di dipendenze incrociate, c’è la società rumena, solcata da cicatrici profonde che la dividono come faglie.
Il film d’apertura
Django, di Etienne Comar

È il film che ha aperto la rassegna, un biopic sul chitarrista jazz Django Reinhardt, funambolico musicista gitano che alla fine degli anni Trenta infiamma i locali di Parigi prima che le politiche razziali dei tedeschi invasori lo costringano alla fuga in Svizzera. Si tratta di un’opera ben confezionata molto scolastica e certo non indimenticabile. Più che il film in sé, conta la scelta di collocarlo come opening act: un film su barriere, espulsioni e persecuzioni razziali sotto i riflettori dell’apertura è stato un atto necessario, che ha introdotto alla perfezione il centro tematico dell’edizione di quest’anno e ribadisce una volta di più il legame forte della Berlinale con i drammi dell’attualità.
Gli altri film in concorso
The Dinner, di Oren Moverman
Tratto dal bestseller La cena di Herman Koch, è il quarto film da regista di Oren Moverman, con un cast di primo piano: Richard Gere, Steve Coogan, Laura Linney e Rebecca Hall si accomodano al tavolo di un ristorante di lusso per una cena in famiglia. Da sotto lo zerbino, però, escono tutto lo sporco e il marcio di una famiglia essenzialmente mostruosa. Purtroppo, da un materiale potenzialmente eccezionale, Overman trae un film sbilenco, che soffre a causa di una scelta incomprensibile: centrare l’intero racconto su uno dei due padri, il personaggio interpretato da Steve Coogan, che fa anche il narratore di buona parte del film, e dipingere l’uomo come uno psicotico irrequieto, annullando buona parte della forza sociale del racconto di Koch.
Wilde Maus (Wild Mouse), di Josef Hader
Josef Hader, attore comico austriaco, debutta alla regia con un film di cui è anche autore e protagonista, Wilde Maus, finendo direttamente nel concorso della Berlinale. Hader è Georg, un critico musicale che viene licenziato dal giornale viennese per cui scrive e decide di tenere nascosta la notizia alla moglie, di cercare vendetta contro il suo ex capo e di rilevare un rollercoaster abbandonato insieme a un suo vecchio compagno di scuola. Istrionico e carismatico, Hader catalizza il film su se stesso, fornendo un’ottima prova attoriale, perdendo però colpi nella sua inedita veste di storyteller: il suo racconto di un uomo azzerato a cinquant’anni dalla perdita del lavoro è superficiale e annacquato, i personaggi di contorno pallidi e poco interessanti.
Beuys, di Andres Veiel
Joseph Beuys non è stato solo uno degli artisti più influenti della seconda metà del Novecento, è stato anche un abilissimo uomo di marketing. Il modo con cui ha gestito la propria immagine non ha eguali. Il risultato di questa calcolata sovraesposizione è che sull’artista tedesco c’è un’infinità di materiale d’archivio a cui attingere, materiali di cui si serve il regista Andres Viel e attraverso i quali, insieme ai montatori Stephan Krumbiegel e Olaf Voigtländer, tenta di catturare l’essenza di un complesso provocatore come Beuys. Purtroppo, la scelta di utilizzare solo found footage non paga: il risultato è caotico, confuso, frustrante, chi non conosce l’artista tedesco si trova inevitabilmente respinto da un flusso di immagini e suoni difficilmente catalogabile, mentre chi ha maggiore confidenza con le logiche di Beuys è destinato a infastidirsi molto presto.
The Party, di Sally Potter
Come The Dinner di Overman, una cena che si fa pretesto per la distruzione della famiglia borghese. Se il film con Gere non decolla mai e perde pretestuosamente per strada la sua forza di denuncia, il film della regista britannica Sally Potter si accontenta di giocare al massacro con i suoi personaggi, con molta sana cattiveria e grande humour: 71 minuti in cui si ride di questa misera umanità che è, ahi noi, la nuova classe dirigente (in questo caso britannica). Così, questo party che un’ambiziosa politica (Kristin Scott Thomas) dà per festeggiare la sua elezione a ministra diventa il momento della grande epifania, in cui si manifesta la vera natura dei personaggi presenti, fedifraghi, traditori, bugiardi e ipocriti. Non un film memorabile, certamente un meccanismo che funziona alla perfezione.
Mr. Long, di Sabu
Il sicario Mr. Long del titolo, interpretato dal carismatico Chang Chen, fino alla fine del film non dice una parola. Troppo macho per parlare, la sua comunicazione passa attraverso un coltello con cui riesce a stendere tutti i suoi nemici. Quando durante una missione a Tokyo, però, qualcosa va storto, Long si ritrova in una baraccopoli, accolto come un idolo da una banda di reietti, stringe amicizia con un bambino, Jun (Runyin Bai), e con la madre prostituta, Lily (Yiti Yao), con i quali crea un redditizio business di noodles. Un soggetto che sarebbe riduttivo definire bizzarro, con un po’ di Chaplin e un po’ di Miike, il nuovo film di Sabu funziona alla grande, tornando sul tema centrale del cinema del regista giapponese, cioè l’apparente impossibilità di uscire da “una vita violenta” e di cambiare le sorti che le proprie radici preparano per ogni individuo.
Return to Montauk, di Volker Schlöndorff
Storia d’amore e di rimpianti ambientata tra i salotti letterari newyorchesi, Return to Montauk è un film più interessante del soggetto che racconta. Lo è grazie al tocco di Schlöndorff, che un po’ inaspettatamente firma il suo miglior film da un po’ di anni a questa parte e alleggerisce, irrobustendolo, un plot (Lui, lei, la ex dei rimpianti) che avrebbe potuto essere letale.
Joaquim, di Marcelo Gomez
L’eroe nazionale brasiliano Joaquim José da Silvia Xavier, meglio noto come Tiradentes (era un dentista), è una sorta di precursore di Simon Bolivar, il padre di tutte le rivolte anticoloniali sudamericane. Il regista Marcelo Gomez lo racconta con un buon film, avvincente e “sporco” quanto serve, ricco di allusioni al mondo attuale, alle divisioni, le barriere e le pretese neocolonialistiche che attraversano la nostra attualità.
Colo, di Teresa Villaverde
Il Portogallo è uno dei paesi più colpiti dalla crisi economica e la regista Teresa Villaverde sceglie di raccontarla filtrandola attraverso la prospettiva della dissoluzione della più rappresentativa delle istituzioni borghesi, la famiglia. Padre, madre e figlia, in questo doloroso e lento racconto, vivono l’esperienza dell’allontanamento, in una dinamica in cui le difficoltà non uniscono, al contrario svuotano simbolicamente la casa, un tempo simbolo della compattezza familiare.
Hao ji le (Have a Nice Day), di Liu Jian
Il volto di Mao sulle banconote, un ossimoro bagnato da una pioggia torrenziale. È l’immagine più forte di questo film d’animazione cinese, una specie di graphic novel per il grande schermo, dallo stile molto illustrativo e statico. Originale e ingegnoso, racconta la giornata di una serie di personaggi le cui scelte ruotano interamente intorno a una valigetta colma di denaro. Il finale tarantiniano è una perfetta metafora della crescita industriale ed economica deregolamentata del colosso cinese.
Sezione Berlinale Special e fuori concorso
T2 – Trainspotting 2, di Danny Boyle (fuori concorso)
Lo scrittore Irvine Welsh, nel 2002, ha dato un seguito a Trainspotting, il mediocre Porno. Altrettanto fa oggi il regista Danny Boyle, riportando sul grande schermo i quattro protagonisti di uno dei film più iconici degli anni ’90. Il risultato, purtroppo, è un’operazione commerciale tremendamente “imborghesita”, magari vincente al box-office, però ormai certamente irriverente soltanto verso l’indimenticabile spirito furbetto e iconoclasta del suo predecessore.
Le jeune Karl Marx (The Young Karl Marx), di Raoul Peck (Berlinale Special, fuori concorso)

Marx e Engels come in un buddy movie, il Manifesto del comunismo come una grande e romantica avventura e una fotografia che sembra uscita da un film di James Ivory. Suona assurdo, eppure Raoul Peck – che qui a Berlino porta anche il suo I Am not Your Negro, documentario candidato all’Oscar – riesce a costruire un testo affascinante proprio per la bizzarra commistione tra questa struttura narrativa accessibile e pop e il contenuto teorico, radicale e ovviamente statico di cui si occupa. Operazione riuscita, proprio perché ricorda in modo semplice ma non semplificato la potenza e l’attualità di quel messaggio originale di lotta e di speranza.
La libertad del Diablo, di Everardo Gonzalez
Il documentarista messicano Everardo Gonzalez (autore lo scorso anno del duro El Paso) confeziona questo semplice e diretto pugno nello stomaco sulla vita violenta nelle lande controllate dai cartelli messicani della droga. Tutti gli intervistati indossano maschere color carne, che lasciano scoperti solo occhi, bocca e naso, eliminano non solo la loro riconoscibilità, ma anche una parte della loro emotività. Decine di storie, di vittime e carnefici, che proprio grazie alle maschere si liberano dei fardelli che affossano le loro coscienze. Un’opera poderosa e sconcertante, che racconta uno spaccato inquietante di un paese che vive da decenni in un perenne stato di guerra.
Sezione Panorama
Ciao Ciao, di Song Chuan
Storia familiare ambientata nella campagna cinese che ruota intorno alla giovane e bellissima Ciao Ciao (Liang Xueqin) per raccontare le divisioni – generazionali e regionali – della società cinese. Un buon esordio per Song Chuan, uno stile naturalistico che tiene il suo sguardo alla giusta distanza da un melodramma dalle tinte emotive molto forti.
Casting JonBenét, di Kitty Green
Uno degli esperimenti più interessanti della sezione Panorama, il film di Kitty Green rinuncia ad un’identità precisa, tra fiction e documentario, per andare a fondo sulle pirandelliane sfaccettature della realtà. Prodotto da Netflix, Casting JonBenét riapre lo sguardo sul tragico e omicidio di JonBenét Ramsey, bambina reginetta di bellezza massacrata all’età di sei anni a Natale del 1996 a Boulder, in Colorado. La regista australiana Kitty Green riutilizza lo stesso tema che aveva usato in The Face of Ukraine: Casting Oksana Baiul: organizza e filma dei casting nella città di JonBenet per un ipotetico film sulla bambina, realizzando di fatto delle interviste fiume ai vari candidati ai differenti ruoli (padre, madre, ecc…) nelle quali emerge il punto di vista di un’intera comunità su questa tragedia e sui protagonisti. Man mano che emergono i dettagli, la realtà si fa via via più inquietante e inafferabile.
Insyriated, di Philippe Van Leeuw
Philippe Van Leeuw è un direttore della fotografia belga, che ha “cinematografato” film com Le dernier des fous o L’età inquieta. Insyriated, di cui ha scritto anche la sceneggiatura, è la sua seconda regia ed è un film fondamentale che speriamo possa avere la distribuzione che la sua importanza meriterebbe. Ambientato tutto all’interno di un appartamento di Damasco, ha la grande capacità di farci davvero vedere una guerra tragica come quella siriana senza mai mostrarla. La guerra sta fuori campo, ma mai come sui volti della famiglia normale di Oum Yazan (Hiam Abbass, bravissima) abbiamo potuto capire il significato di un dramma tremendamente poco raccontato dai media di tutto il mondo.
Headbang Lullaby, di Hicham Lasri
Il visionario regista marocchino Hicham Lasri racconta la storia recente del suo paese con questo surreale racconto che ha come protagonista l’ufficiale dell’esercito Daoud (Aziz Hattab), mandato in missione a sorvegliare un ponte. Ponte su cui, però, non succede nulla e la missione si rivela solo un perverso meccanismo kafkiano. Surreale, coloratissimo e travolgente, è tra le opere visivamente più suggestive passate per la Berlinale. Sotto la parata di colori e suoni, però, la sensazione è che la riflessione sulla farraginosa macchina statale marocchina sia un po’ troppo fragile.