E’ ben vero che il cinema, come la letteratura, l’arte di raccontare, non morirà mai: fino a quando ci saranno uomini quest’arte non verrà mai meno; è ben vero che quando un artista muore, resta comunque vivo quello che lascia: il romanzo, il racconto, la rappresentazione teatrale, il film. Tutto vero. Vero anche che quello scrittore, quell’autore, quel regista, quel grande interprete, se n’è andato per sempre, è un’amputazione per tutti noi che restiamo. Lascia comunque un vuoto: perché non gli hai chiesto abbastanza di “spiegare” il senso del suo lavoro, o semplicemente la sua genesi, non hai “scavato” a sufficienza, profittando del suo “esserci”, e della sua disponibilità a chiarire i punti irrisolti, che ci son sempre; soprattutto resta il rammarico per quello che avrebbe potuto essere e non è, che avrebbe potuto ancora fare e dare, e non ha fatto in tempo.
Vale per tutti, ovviamente; e ogni volta te lo chiedi, quando se ne va qualcuno che è stato grande, che ha inciso e “segnato”; e te lo chiedi oggi, che ad andarsene è Ettore Scola: uno di quei registi di cui sembra essersi perso lo stampo. In lui, nonostante una discontinuità di risultato, riconosci comunque una scuola frutto, evidentemente, di una particolare epoca: quella degli anni d’oro del cinema italiano, risultato di uno “spirito” che è (meglio: era) un qualcosa di collettivo, “comune” (nel senso di comunità). Qualcosa che si forma fin dagli anni di quando “c’era Lui, caro Lei”, sì: Benito Mussolini.
Nessun rimpianto di quegli anni, non si equivoci. Chi scrive è fermamente convinto che “quando si stava peggio” si stava peggio, e mille volte si sta meglio oggi; ma il cinema deve comunque parecchio, al fascismo. Perché Mussolini comprende quale straordinaria macchina di consenso sia il cinema, e da Torino trasferisce la città del cinema a Roma, e crea appunto Cinecittà; ed essendo sia Mussolini che la sua famiglia appassionati di cinema, ecco che quell’arte viene protetta e riceve gli impulsi di cui altre arti non beneficiano; è il periodo dei cosiddetti “telefoni bianchi”. Beninteso, c’è un’autorità occhiuta che vigila e controlla, autorizza e vieta. Però è in quegli anni che si fanno le ossa registi, sceneggiatori, autori, attori.

Chissà: forse sono proprio i rigidi binari imposti dal regime, che aguzzano l’ingegno, che costringono spiriti liberi e oppressi a trovare il modo di gabbare il censore, e trovare i mille modi per aggirare i diktat del regime. Fatto è che lì nasce quello che poi esploderà come la più bella e importante stagione del cinema italiano: con i Roberto Rossellini e i Vittorio De Sica, e via via, con i Federico Fellini, i Michelangelo Antonioni, i Pietro Germi, i Dino Risi e i Mario Monicelli, e i mille nomi che si possono fare, e che non possono essere tutti citati, è un elenco davvero nutrito: dimostrazione che l’Italia sa dare tantissimo al cinema (come, del resto, in qualunque altro campo; un orgoglio di appartenenza è assolutamente legittimo, perfino doveroso). La stiamo prendendo alla lontana, ma è necessario, credo, per capire il fenomeno Ettore Scola, il regista che ci ha appena lasciato. Quel tipo di cinema negli anni Cinquanta e Sessanta dà il meglio di quello che è, perché è il risultato di fantasia e competenza, di paziente sapienza artigianale e guizzi di autentica genialità: un minestrone di maniacale precisione e improvvisazione capace di cogliere “l’attimo”, assimilazione del mestiere e “follia”. Una volta chiesero a un grande attore se non credeva di esagerare, nel chiedere un cachet con parecchi zeri, dopo la prima cifra, in fondo la sua era una parte di pochi minuti. “Non pochi minuti”, ribatté pronto, “pochi minuti e trent’anni!”. E aveva ragione: quei dieci minuti erano il frutto di avanspettacolo, teatro, cinema, doppiaggi, e insomma, un bagaglio di trent’anni di sudatissimo e serissimo lavoro; per cui quei cinque minuti erano come un acuto di Luciano Pavarotti.
Così il cinema italiano di quegli anni: che genera una quantità di film apparentemente di cassetta o “popolari”, e che comunque restano nella memoria collettiva di tutti noi; realizzati da produttori attentissimi al denaro (i Carlo Ponti, i Dino De Laurentis, gli Angelo Rizzoli), e proprio per questo presenti ogni giorno sul set di Cinecittà; e poi: registi che conoscono anche le viti della macchina da presa, alle spalle un lungo tirocinio di soggetti e sceneggiature; e puoi giurarci che il montatore o il tecnico delle luci sono maestri nel loro lavoro, e ognuno nel suo campo fa scuola.
Prendiamola la biografia di Scola: comincia con le vignette, al “Marc’Aurelio”, come Fellini. Lo troviamo poi come aiuto-sceneggiatore e sceneggiatore con “vecchie volpi” del calibro di Age e Scarpelli. Firma un centinaio di sceneggiature: da Un americano a Roma, a La grande guerra e Crimen; ma anche, per dire, Il conte Max, Totò sulla luna, La parmigiana; ma anche Le pillole di Ercole, Il sorpasso… Ragazzi, quella è la scuola! Non dobbiamo stupirci, dunque se poi Scola ci regala quel capolavoro che è Una giornata particolare: film che attraverso due sole figure (quella di Antonietta moglie di un fanatico gerarchetto, donna che poco sa e tanto capisce; e Gabriele, omosessuale condannato come sovversivo non tanto per quello che fa, quanto per quello che è), spiega con implacabile pacatezza l’atrocità di quegli anni in cui “i treni arrivavano in orario”, e i prezzi, enormi, pagati per quella presunta puntualità. Ci sono due mostri sacri, a interpretare Antonietta e Gabriele: Sophia Loren e Marcello Mastroianni, che come in pochi altri film sanno raggiungere una “chimica” che li ha resi una coppia cinematografica di ineguagliabile armonia e capacità di reciproca comprensione. Vero. Ma dietro la macchina da presa, a vigilare e guidare, c’è lui, Scola; e tutta la “macchina” di quel cinema che abbiamo cercato di descrivere prima. Chissà, forse era questione di “aria” come l’ineguagliabile miscela della pasta che si ottiene solo a Fara San Martino e non altrove…
Poi, indubbiamente, le personali esperienze contano: l’esser nato a Trevico di Avellino (e a proposito: ecco il bellissimo Trevico-Torino), nel 1931. La “scommessa”, come tanti, nella grande città, Roma. Il lungo tirocinio alla radio, con un tipo strano, che diventa Alberto Sordi. Del “Marc’Aurelio” s’è detto, e lì, altro cinema: Fellini, ma anche Ruggero Maccari, e apprende l’arte delle “battute”, del ritmo… La stagione del neorealismo, ma anche quella che verrà chiama “la commedia all’italiana”; ma anche l’impegno, il voler e saper raccontare con lucidità e il respiro dello storico, una realtà che ti circonda e vorresti fosse diversa, “altra”.
Volete dei titoli? Eccoli: C’eravamo tanto amati, un Vittorio Gassman, un Nino Manfredi e uno Stefano Satta Flores amicissimi e tutti e tre innamorati di Stefania Sandrelli, pretesto per raccontare vent’anni d’Italia dal 1945; La terrazza; il già citato Una giornata particolare; il film d’esordio Se permette parliamo di donne, con Gassman, Manfredi e Marcello Mastroianni, gli attori che Scola predilige. Ancora Il commissario Pepe, Dramma della gelosia, tutti i particolari in cronaca, Brutti, sporchi e cattivi, La famiglia; fino al dolce, struggente, malinconico Concorrenza sleale, del 2001, il film del commiato: ambientato nel periodo fascista, è il film con cui Scola dice che con il cinema chiude, “sente” che ha dato tutto quello che voleva e poteva dare.
Una carriera segnata da nove David di Donatello, da un “Cannes”; e ancora: Gran Premio al festival cinematografico di Mosca, cinque nomination all’Oscar, e chissà quanti ne dimentico. Accanto alla cinepresa, un costante, mai venuto meno impegno politico. Sempre a sinistra, sempre con il PCI e le sue varie trasformazioni. Ci credeva, ci ha creduto, fin quasi all’ultimo. La terrazza descrive i suoi turbamenti, le sue delusioni, le sue amarezze, le sue nostalgie. Comunque è più quel che ha dato di quel che ha avuto; diceva quel che pensava, e pensava quel che diceva. Ma qui il discorso davvero divaga, e diventa altro.