Custodita dall'ombra lunga del genio di Orson Welles, protagonista della programmazione festivaliera con la proiezione di Quarto Potere, Mr. Arkadan e L'infernale Quinlan e della locandina ufficiale della rassegna che l'ha omaggiato a cento anni dalla nascita, la 33ª edizione del Torino Film Festival, dati alla mano, si è chiusa con un segno positivo per quanto riguarda la presenza del pubblico, con un +10% di ingressi alle dodici sale che costituiscono la spina dorsale di quello che può essere definito a tutti gli effetti un vero festival di cinema metropolitano italiano.
A tornare a casa vittorioso con il premio del Concorso Ufficiale il belga francofono Guillaume Senez con il suo esordio al lungometraggio Keeper. Già presentato a Locarno, il film, è la storia di due quindicenni, Maxime e Mélanie, che da un'amore adolescenziale si ritrovano a dover fare i conti con una gravidanza inaspettata e le complesse decisioni portate dal potenziale arrivo di un figlio, specie se in un'età ancora così acerba. La vittoria sentenziata dalla giuria, presieduta da Valerio Mastandrea, s'inserisce coerentemente in uno dei filoni tematici di quest'edizione: il cosiddetto coming of age. Molte sono state, infatti, le pellicole incentrate a raccontare, con uno stile surreale, drammatico, onirico e indie, la crescita e il passaggio a una dimensione più consapevole di uno o più protagonisti.
È il caso dei tre irresistibili personaggi maschili di Sopladora De Hojas, l'esordio del messicano Alejandro Iglesias Mendizábal, vincitore ex equo del premio come miglior sceneggiatura con Degena Yun per A Simple Goodbye, nel quale mostra uno spaccato della gioventù del suo Paese lontano dagli aspetti folkloristici con i quali siamo soliti dipingere il Messico. È il caso anche di Just Jim, brillante e sgangherato debutto alla regia di Craig Roberts, già protagonista di Submarine, con una pellicola imperfetta, ma ricca di finezze, che ha come protagonista un giovane loser inglese di periferia (interpretato dallo stesso cineasta), o ancora del racconto favolistico sull'innamoramento in chiave teen immortalato in John From, del portoghese João Nicolau, e della comedy-drama indie, titolo di punta dell'ultima edizione del Sundance, Me & Earl & The Dying Girl, di Alfonso Gomez-Rejon.
Tutti esordi al lungometraggio di registi provenienti da ogni latitudine geografica, segno distintivo fin dalla prima edizione del Festival, a sottolineare come il nuovo, a volte incompleto, sguardo degli autori sia la vera linfa che sostiene lo scheletro della rassegna, in ogni sua sezione. Un concorso, ricco di titoli (forse troppi per destreggiarsi in un programma fittissimo?), caleidoscopico per generi e stili, che si attesta come uno dei tre grandi festival di cinema nel nostro Paese e che soffre, ma, al tempo stesso, gode di una collocazione a ridosso della fine dell'anno che costringe ad aguzzare ingegno e fiuto per trovare opere distanti da quelle che solitamente finiscono nelle sezioni veneziane e romane. Esempi lampanti sono i quattro film italiani – I racconti dell'orso di Samuele Sestieri e Olmo Amato, Lo scambio di Salvo Cuccia, Colpa di Comunismo di Elisabetta Sgarbi e Mia madre fa l'attrice di Mario Balsamo – su quindici pellicole complessive presenti in concorso.
C'è da dire però che, con una somma a disposizione alquanto contenuta di 2 milioni e 400 mila euro complessivi, il Festival è penalizzato sotto l'aspetto economico rispetto agli altri grandi festival europei, rendendo difficile, tra le altre cose, anche l'arrivo copioso di ospiti internazionali, quest'anno limitati a Nicholas Winding Refn, Terence Davis e Julien Temple, il cineasta britannico in veste di Guest Director.
Novità di quest'anno, le sezioni speciali “Questioni di vita e di morte”, nella quale sono stati proiettati classici del cinema che trattano il tema della morte, e “After Hours”, dedicata principalmente agli horror, come February, la sanguinolenta pellicola di Oz Perkins, The Nightmare, documentario dell'orrore dedicato alla sindrome della paralisi del sonno realizzato da Rodney Asher, anche se non sono mancate commedie, come l'irresistibile allunaggio dalle sfumature psichedeliche di Moonwalkers di Antoine Bardou-Jacquet o il divertissement cinefilo di Guy Maddin con The Forbidden Room. Tra le novità anche il debutto di “Notte Horror”, una maratona notturna, conclusasi con cornetti e cappuccino, che ha visto il tutto esaurito al Cinema Massimo, a due passi dalla Mole, con la proiezione di The Devil’s Candy di Sean Byrne, The Hallow di Corin Hardy e del già citato February.
L'abbiamo detto, l'edizione numero 33 del Torino Film Festival non ha avuto un solo filo rosso tematico, ma ha spaziato liberamente e con una buone dose di audacia tra vari argomenti, magari non sempre con titoli del tutto riusciti, ma comunque contraddistinti da un'angolazione e da un taglio inediti. Il tema femminile declinato in diverse realtà, per esempio, è stato un altro dei punti cardinali di quest'anno: lo si è visto in Suffragette, film diretto da Sarah Gavron con protagoniste Meryl Streep e Carey Mulligan, The Dressmaker, comedy-drama australiano con una Kate Winslet vendicativa ed elegantissima, e The Lady in the Van, adattamento della pièce di Alan Bennett con protagonista una gigantesca Maggie Smith.
L'oscillare tra classici e sperimentazioni è un'altra caratteristica della rassegna. Alla proiezione di cult come Brazil e Arancia Meccanica, infatti, si sono alternate prime assolute, come quella di Tragica Alba a Dongo, il film “ritrovato” (censurato) di Vittorio Crucillà, realizzato nel 1949 e successivamente restaurato dal Museo Nazionale del Cinema, sulle ultime ore di vita di Benito Mussolini e Claretta Petacci.
Calorosissima la partecipazione del pubblico e Torino, a differenza di Venezia e Roma (anche se quest'anno la Festa capitolina si è mossa in una direzione più attenta al pubblico, dislocando proiezioni in vare sale cittadine per toccare più quartieri possibili LINK), vive esattamente di questo: una partecipazione attiva, divertita e fedele di un pubblico che continua a crescere di anno in anno e che costituisce il seme dal quale tutta la rassegna prende vita, permettendo agli spettatori non solo di vedere pellicole di esordienti, ma anche recuperare titoli imprescindibili della storia del cinema o rarità che altrimenti non avrebbero occasione di conoscere.
Con duecentocinque film spalmati in nove giorni di programmazione e un caleidoscopico insieme di stili, la 33ª edizione del Torino Film Festival si attesta come la rassegna più ricca ed originale del panorama italiano, l'unica, tra le grandi, a permettere una fusione vibrante con la città, stimolante protagonista che regala un'atmosfera unica, tra raffinate piazze e portici, sotto lo sguardo silenzioso della Mole.