Non ha mai sentito l’appartenenza ad un territorio, per questo, la sua curiosità lo ha portato altrove, in giro per il mondo e lontano dalla sua Sicilia dove però è di recente ritornato. Luca Ruberto, nato ad Enna trentotto anni fa, specialista in filologia classica e in drammaturgia antica, è figlio della “generazione X”.
Esule siciliano, si è formato come attore all’interno di quel movimento teatrale che ha assunto il nome di Terzo teatro, originato dalla ricerca iniziata dal regista russo Konstantin Stanislavski e poi di Jerzy Grotowski e il lavoro sull’antropologia teatrale di Eugenio Barba.
Frequenta le scuole di teatro contemporaneo di Lucia Sardo, Marcello Cappelli, Tapa Sudana, Enrique Pardo alle quali aggiunge gli incontri di studio con Dario Fo, Franca Rame, Stefano Benni e Pedro Almodovar.
A Troina, piccolo paese dell'entroterra siculo, in provincia di Enna, dirige il laboratorio sperimentale di formazione dell'attore Insolita che si è ormai trasformato in una vera e propria scuola di recitazione teatrale e cinematografica.
Ha scritto e diretto, tra gli altri, gli spettacoli Passio (dramma sacro ispirato al Vangelo secondo Matteo di Pasolini), Interno 666, Come sei bella, sei un ufo? (tratto da Le principesse di Emma di Emma Dante), Ferite a morte (tratto dall'omonimo progetto teatrale di Serena Dandini). Prossimamente porterà in scena, 5 Dicembre 1950, Ancipa: la tragedia della solidarietà e Margherita Dolcevita (tratto dall'omonimo romanzo di Stefano Benni).
È convinto che sarà l’arte a salvare il mondo. “Gli artisti sono medici, psicologi sociologi, curano l'anima, nutrono il cervello e gli occhi. L'arte , ai nostri giorni, è la nuova resistenza. Ma si devono avere gli strumenti necessari per praticarla”, ci ha detto.
Figlio della "generazione X", siciliano esule ma poi rientrato in patria. Perché sei tornato nell'ombelico della Sicilia, a Troina, in provincia di Enna, dove hai fondato un laboratorio di teatro sperimentale?
“Non ho mai avuto un senso di appartenenza, sono stato sempre cosmopolita, anche da bambino, figlio del mondo; ho viaggiato tanto, da studente e da osservatore. Sono entrato in diretto contatto con diverse culture, mentalità e ho nutrito notevolmente la mia anima e il mio estro creativo. Ad un certo punto, però, ho sentito l'esigenza di tornare all'archetipo, all'origine della mia esistenza. Ho scelto di ritornare nell'entroterra siculo, a Troina, usando come pretesto lo studio di un fenomeno socioeconomico che avvenne a Gagliano Castelferrato (paese natale di mia madre, poco distante da Troina) nel lontano 1966: Enrico Mattei, prima che morisse, tenne il suo ultimo discorso proprio a Gagliano Castelferrato e, dopo la sua morte, fu creata, dopo una rivoluzione civile, un'industria tessile statale (la secondo in Italia), promessa dall'ingegnere tragicamente ucciso. L'impianto di tale industria diede lavoro a circa 500 persone, in maggioranza donne, e generò una straordinaria emancipazione femminile, insolita per il luogo. Io ho vissuto gli ultimi anni di questo stabilimento, poiché mia madre era segretaria amministratrice e promotrice di quell'emancipazione. Questo fenomeno mi ha dato ispirazione per uno spettacolo epico teatrale e per un documentario. Tra l'altro, incoraggiato anche da Franca Rame. Mi sono trasferito, quindi, a Troina, ma come resistenza alla lenta e monotona vita paesana (a me sempre estranea), ho deciso di fondare un laboratorio teatrale, anche per formare, artisticamente e culturalmente attori, sceneggiatori, scenografi e operatori culturali in grado di dare linfa artistica ai miei ambiziosi progetti. Ancora mi domando il perché abbia scelto proprio Troina, e sono tanti a domandarmelo: amici, colleghi, colleghi, maestri e registi. Non so dare una risposta ben precisa, so semplicemente che qui vi sono dei sapori, degli odori e delle percezioni che non possono non farti creare qualcosa. Tutto è evocativo, magico ma anche arido. Però, nonostante tutto, hai sempre uno spunto per scrivere uno spettacolo, un film, un personaggio o altro. Il mio mantra è stato: se riesco a seminare un seme in un deserto e lo so ben annaffiare, prima o poi quel seme, pur vivendo in un contesto arido, diventerà un'oasi”.
Quali sono le resistenze maggiori che hai incontrato nella comunità?
“Naturalmente non è stato per niente facile creare tutto ciò. Mi sono trovato di fronte ad una realtà che immaginavo totalmente diversa. Un contesto provinciale, arido, paesano, dove regna il pregiudizio nei confronti di un ragazzo estroso che viene da fuori che viene visto come uno che vuole arricchirsi vendendo sogni o illusioni (cosa totalmente falsa, poiché io non percepisco personalmente neanche un euro dai miei allievi e per ogni spesa che dobbiamo affrontare ci autotassiamo). E poi ancora, l'invidia lo scherno, il minimizzare un lavoro frutto di tanti studi, viaggi e certificazione prestigiose. In una realtà dove tutti possono fare tutto senza averne le specifiche competenze, tutti possono fare gli artisti, gli storici ecc., in un contesto dove regna soprattutto la cultura tradizionale, il folklore (realtà meravigliose e ricche di energia creativa), un mondo sperimentale, nuovo, metropolitano, suscitava paure e diffidenza”.
Il tuo ultimo spettacolo che porterai in scena a dicembre parla di una tragedia dimenticata. Il tuo teatro diventa memoria e azione civile. Quali sono i messaggi che vuoi dare?
“Oltre lo studio sul fenomeno di emancipazione femminile a Gagliano Castelferrato, mi ha sempre affascinato lo storia della costruzione della diga più grande della Sicilia: l'Ancipa. sin da bambino sentivo i racconti sui cantieri, sulla struttura e sui, ahimè, sulle morti sul lavoro. Ho preso spunto su un testo di Pino Scorciapino Ancipa che racconta in maniera precisa tutti gli avvenimenti e mi sono soffermato particolarmente sulla tragedia di Candela, dove si trova la IV finestra (le finestre sono delle gallerie che servono alla manutenzione alla galleria principale che parte dalla diga e arriva alla centrale di contrada Radicone). Il 5 dicembre del 1950 alle ore 21, morirono 13 operai (quasi tutti del 'continente' e nessuno di Troina) a causa di uno scoppio causato dall'incendio del grisù dentro alla galleria. È una storia della solidarietà. Dopo i primi due, 12 operai entrarono in galleria, pur sapendo di non fare ritorno, per dare soccorso ai loro compagni.. e via via rimasero soffocati dal potente gas. Non tutti conoscono questa storia. Il mio obiettivo è quello di portarla in giro per il mondo e farla conoscere attraverso l'azione scenica che ha per questo spettacolo una struttura epico-narrativa e didattica. La storia di Troina è simile alla storia di Marcinelle e della ThyssenKrupp (raccontata abilmente da Pippo del Bono in La Menzogna). Ho voluto dare un carattere particolarmente mio alla struttura. ho immaginato, nella prima parte, come potessero vivere i troinesi l'attesa di questi "uomini del Nord" e attraverso le improvvisazioni abbiamo rivissuto quei momenti e fatto testi e personaggi. E poi mi sono concentrato sul carattere storico. Ho scelto il linguaggio del teatro perché più semplice e più diretto per portarlo in giro e far conoscere la vicenda, ma è in cantiere anche il film su questa vicenda ed è quasi pronta la sceneggiatura. Abbiamo già girato il trailer, grazie al supporto del videomaker Vito Carrino, e devo dire che sta già suscitando una grande curiosità. Il mio scopo è proprio quello di far conoscere questa storia dimenticata”.
I ragazzi del tuo teatro: chi sono? Trovi sentimenti come voglia di scappare dalla Sicilia o restare e costruire?
“In due anni di attività ho formato una scuola con tre classi: bambini dai 7 ai 10 anni; classe di adolescenti; adulti. Sono allievi che vogliono sperimentarsi, che amano mettere a disposizione le loro doti, le loro attitudini. Amano dipingere, creare scenografie, scrivere e improvvisare per poi creare un film o uno spettacolo da portare in scena. Sono ragazzi che non sono strappati dalla strada o dalle sale giochi, ma motivati, coraggiosi e impegnati e fanno da traino anche ai loro coetanei che occupano le loro giornate in altre attività. Sono ragazzi che vogliono costruire qualcosa di solido e di grande nella loro terra. Alcuni decidono di restare, altri di andare per poi ritornare con un enorme bagaglio culturale da investire proprio in Sicilia, così come ho fatto io”.
Quali sono i riferimenti teatrali ai quali ti ispiri? Che linguaggio usi?
“I miei riferimenti sono il teatro greco, quello di ricerca del '900 europeo , Grotowskiy, Boal, Brecht, Barba, e poi ancora Dario Fo, Carmelo Bene, Pina Bausch… Adoro il linguaggio del corpo, la potenza del gesto che va oltre la parola. Nel mio teatro è vivo tutto ciò. Ma soprattutto adoro la sicilianità, quella gestuale, viscerale, ancestrale, quella sicilianità che si fa scherno del dolore, che deride la tragedia (dietro il carro di morte vi è il carretto). Per questo motivo mi trovo in sintonia con Emma Dante, regista che adoro e dalla quale prendo spunto”.
Ti sei mai pentito di essere tornato in Sicilia?
“Sì, per certi versi mi sono pentito: qui è tutto lento, tutto approssimato, tutto è nelle mani di gente incompetente che mira più al nutrimento del proprio ego che al bene comune. Anche vivere in paese non è facile, a parte la diffidenza, è tutto così bigotto, circostanziale e spesso mi sento un pesce fuor d'acqua. Ma gli obiettivi sono la mia panacea”.
C'è una Sicilia che vuole cambiare. Magari partendo dai piccoli paesi. Credi che ci sia una “bella gioventù” siciliana che possa portare una grande rivoluzione?
“Sì, c'è una bella gioventù che vuole rivoluzionare le cose, ma non è ben sostenuta e via via si demoralizza. Poi, quando ci si impegna sul sociale o sull'arte, tutto ciò viene visto come un passatempo inutile o come una perdita di tempo. Io invece adoro impiegare il tempo ed è il concetto che voglio imprimere nelle menti provinciali. Diciamo che non ci sarà più un Luca Ruberto che deciderà di ritornare in un paese di provincia e di regalare il suo tempo, la sua preparazione e le sue risorse economiche per fondare un qualcosa di culturalmente e umanamente e validamente alternativo, come dicono spesso i miei colleghi dell'estero”.
Sarà l'arte a salvare il mondo?
“Sì, lo credo, lo scrivo e lo sottoscrivo. Gli artisti sono medici, psicologi sociologi, curano l'anima, nutrono il cervello e gli occhi. L'arte, ai nostri giorni, è la nuova resistenza. Ma si devono avere gli strumenti necessari per praticarla”.