La storia del cinema, americano ma non solo, è fatta di autori legati in maniera indelebile a determinati momenti storici, culturali e sociali. Cameron Crowe sembra, purtroppo per lui, essere uno di questi. Dopo un decennio come gli anni ’90, attraversato in maniera entusiasmante grazie a commedie quali Singles e Jerry Maguire – e chiuso proprio nel 2000 con il suo capolavoro Almost Famous (Quasi famosi), Oscar per la sceneggiatura – il cineasta ha iniziato a produrre un tipo di cinema che, anche se ancora apprezzabile, ha cominciato a essere in un certo senso fuori tempo massimo. Il suo ultimo Aloha, uscito negli Stati Uniti lo scorso 29 maggio, decreta appunto questa mancanza di rinnovamento, l’incapacità di rimanere agganciato a un medium che negli ultimi vent’anni ha cambiato radicalmente pelle, non solo nell’estetica quanto nel modus di scrittura, fattore maggiormente legato all’anima della produzione di Crowe.
Prendiamo ad esempio Brian Gilcrest, lo stereotipo del simpatico guascone interpretato da Bradley Cooper in quest’ultimo lungometraggio: negli ultimi tempi questo “tipo fisso” si è colorato di sfumature più oscure e di una profondità psicologica che rispecchiano in pieno le ambiguità del nostro tempo. Vederlo riproposto in Aloha velato dell’ottimismo se vogliamo anche ingenuo che lo caratterizzava negli anni ’90 risulta decisamente anacronistico. E lo stesso si può dire per i personaggi di contorno, primo tra tutti quello dell’idealista e integerrima Allison/Emma Stone. Peggio ancora è addirittura andata a un comprimario eccellente come Bill Murray e a tutti gli altri attori di contorno, relegati dentro figure che anche quando sono negative sprizzano un buonismo di fondo che a tratti arriva a irritare.
La commedia che Cameron Crowe ha realizzato in passato anche nei suoi momenti più malinconici raccontava di una visione del mondo profondamente ottimista, senza però risultare mai semplicistica nel presentare al pubblico questo orientamento. Il più grosso difetto di Aloha tutto sommato è proprio quello di non problematizzare i risvolti più cupi della trama, i presunti lati oscuri dei personaggi. Tutto quindi rimane in superficie, non c’è alcuno sviluppo psicologico che porta lo spettatore a intravedere un’anima dietro il sorriso sempre smagliante di Bradley Cooper. Senza tale incisività nelle rappresentazioni dei ritratti anche la storia pian piano scivola in un ritmo che più che procedere si trascina verso la fine scontata.

Da sinistra, Rachel McAdams, Cameron Crowe ed Emma Stone alla prima californiana (Foto: Mario Anzuoni)
Cosa è dunque successo alla vena artistica di un grande sceneggiatore e regista quale era Cameron Crowe? Possibile che sia realmente smarrito nel corso degli anni? La sfida più difficile consiste nel riadattare la sua specifica scrittura cinematografica dentro canoni che oggi non consentono più o quasi il gioioso ottimismo di un tempo. L’America, il cinema, gli spettatori: tutto è cambiato dai tempi di Jerry Maguire. Crowe sembra essere rimasto figlio del suo tempo, e se per molti ciò rimane un attestato di stima, purtroppo non giova alla sua capacità di raccontare il presente.
Aloha è molto lontano dall’essere un buon film, abbastanza dall’esserne uno decente. Ha però il solito, grande pregio dei grandi film di Cameron Crowe: un’ultima scena come sempre irresistibile. Sopportate quindi i difetti di tutto ciò che viene prima e non ve ne pentirete…
Il film uscirà in Italia il 15 ottobre 2015 con il titolo Sotto il cielo delle Hawaii.
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