Festival di Cannes, terzo bollettino. La Croisette è sempre più stracolma di star, di gente a caccia di star e di addetti ai lavori che delle star iniziano a non poterne più. Mentre le occhiaie dei critici iniziano a raggiungere livelli di guardia, raccolgo con stupore le lamentele un po’ isteriche di alcuni colleghi che tuonano contro l’organizzazione raccontando di code interminabili, di proiezioni mancate e di risse da caserma. Io non ho rilevato nulla di tutto ciò, anzi, nonostante la frenesia di una manifestazione entrata nella sua fase conclusiva e le trattative sempre più intense del Marchè du Film, nei sotterranei, tutto sembra rispettare serenamente il protocollo.
Parlando di film, il livello medio della competizione si è decisamente alzato, mostrando, uno in fila all’altro, tutti quelli che, visti da qui, sembrano i candidati più autorevoli per la Palma d’oro. Sono infatti cinque, per il momento, i film che sembrano di un livello superiore rispetto agli altri e che, con l’outsider Moretti pronto ad inserirsi, parrebbero destinati a contendersi la Palma d’oro domenica prossima. Intanto, ecco le nostre palme.
Andando in ordine di “visione”, il primo colpo di fulmine è stato con La loi du Marché (The Measure of a Man il titolo con cui sarà distribuito negli States), di Stéphane Brizé, un crudo e spoglio viaggio nel cinismo spietato del nuovo mercato del lavoro e delle regole disumane della grande distribuzione, che trita i suoi dipendenti con meccanismi alienanti che rifiutano a priori di guardare la persona dietro al lavoratore. Il grande equilibrio su cui si regge questa pellicola, però, è quasi totalmente da ascrivere ad un monumentale Vincent Lindon, che si carica il film sulle spalle con una performance gigantesca, sopporta con un carisma immenso la macchina da presa di Brizé sempre addosso, che lo scruta, lo studia, lo insegue. Raccontando di Thierry, uomo disoccupato di mezza età, un figlio disabile, mutuo, a carico, sarebbe facile scivolare nel patetico, ma Lindon lavora splendidamente di sottrazione e misura e dona al film un equilibrio straordinario ed emozionante.
Secondo colpo di fulmine, questo largamente annunciato, è arrivato da Sicario di Denis Villeneuve. Il regista canadese due anni fa ci ha regalato ben due thriller, girati pressoché in contemporanea: Prisoners, con Jake Gyllenhaal e Hugh Jackman, ed Enemy, sempre con Gyllenhaal. Quest’ultimo, che purtroppo non è mai arrivato in Italia, pur essendo il migliore tra i due, aveva già dimostrato che Villeneuve ha raggiunto la piena maturazione artistica. Sicario è un thriller che a prima vista potrebbe sembrare una declinazione “narco” di Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow, con una caccia all’uomo – in questo caso un boss del cartello – portata avanti da una task force eterogenea e molto oltre i limiti della legge guidata, almeno nel suo lato “ufficiale”, da una donna, interpretata da una bellissima e bravissima Emily Blunt. Nel racconto di Villeneuve, come sempre, i confini tra buoni e cattivi, legge e criminalità saltano completamente, e tutto si mescola in una enorme zona grigia in cui i giudizi morali sembrano sospesi. Straordinario Benicio Del Toro, nei panni di un misterioso “consulente” aggiunto alla task force, di cui, fino alla fine, si ignora la provenienza e che porta avanti la riflessione di Villeneuve sul tema della vendetta.
Mercoledì è stato il giorno di Youth di Paolo Sorrentino, film che abbiamo amato incondizionatamente dalla prima visione e rispetto al quale vi rimandiamo alla recensione che gli abbiamo dedicato.
Sempre mercoledì è stato presentato un altro “pezzo da novanta” che ha buone chance di ottenere premi, Mountains Will Depart del cinese Jia Zhang-ke, Leone d’oro a Venezia nel 2006 con Still Life e premiato qui a Cannes nel 2013 per A Touch of Sin. Ormai, questo ancora giovane (classe 1970) autore cinese è da tempo uno dei grandi del cinema internazionale e non è un’affermazione da poco dire che questo Mountains Will Depart è il suo migliore film. Inizia nel 1999, alle soglie del nuovo millennio, per finire nel 2025, cambiando “aspect ratio” 3 volte, dal 4:3 al 16:9 al formato super panoramico 2,35:1, per sottolineare “l’aprirsi” di questo melodramma verso un mondo sempre più complicato e inafferrabile. Un affresco sulla Cina che cambia e che mette al centro una donna che “sceglie” l’uomo sbagliato, e suo figlio, che proprio per via di quella scelta superficiale non sarà mai veramente “suo”. Visivamente bellissimo, intenso, originale, sarebbe impensabile vederlo fuori dal lotto dei premiati.
Infine, altro bellissimo film che gioca in casa è Dheepan, del bravissimo Jacques Audiard. Storia di guerra, quella combattuta, però, alle porte di Parigi, nelle banlieu che poi non sono così diverse dalle war zone calde del pianeta. Il protagonista è un profugo della guerra civile dello Sri Lanka, che impara ad amare una famiglia “finta” (una donna e una bambina che per ottenere passaporti e status di rifugiati politici si fingono moglie e figlia) ma scopre che alle porte delle metropoli occidentali, nelle “pattumiere” delle belle società (non solo quella francese: qui ci sono le banlieu, altrove c’è gomorra) si combattono guerre di cui mediaticamente si parla con altri toni, ma quando si spara sono violente come quelle in cui era abituato a combattere. L'attore protagonista è Jesuthasan Antonyhasan, che è veramente un profugo cingalese emigrato a Parigi, dove ha trovato il riscatto lavorando nel sociale, proprio nelle banlieu, ottenendo poi successo come scrittore con il nome di Shobasak-thi. Violento, teso, di una bellezza astratta e inquietante, dopo Un Prophète e De rouille et d'os, questo Dheepan conferma l’eccezionale talento di Jacques Audiard, l’ultimo arrivato in questa top 5 di livello assoluto da cui probabilmente uscirà il vincitore della 68ª edizione del festival di Cannes.