A cinque anni da Public Enemies (Nemico pubblico, 2009) Michael Mann è tornato con un film, Blackhat, che, rispetto agli stilemi estetici e contenutistici a cui ci ha abituato il cinema d’azione odierno, sembra quasi fuori tempo massimo. E questa è a nostro parere la sua forza primaria.
Come al suo solito il grande autore non si allinea con quanto il mercato dello spettacolo richiede oggi, ma costruisce un’opera che lo rispecchia in pieno, anche nelle sue imperfezioni.
Attualissimo nell’affrontare il problema del cyber terrorismo, Blackhat è un thriller ruvido, sfrontato, scritto e realizzato con una libertà artistica che soltanto Mann e pochi altri cineasti contemporanei possono concedersi. La sua volontà sempre ferrea di gestire la velocità della narrazione lo porta, come successo ad esempio in Heat (id., 1995) o Miami Vice (id., 2006), a continui cambi di ritmo: lunghi momenti di setting, scene di introspezione necessarie per conoscere il carattere e i rapporti tra i personaggi, e poi quasi improvvisa l’azione violenta, convulsa, ruvida nel suo realismo raggelante.
Quando mette in scena le sue storiche battaglie urbane, Mann costruisce degli spazi filmici esemplari, dove l’architettura dell’immagine racconta non solo l’azione che si svolge, ma anche il contesto con una lucidità e un’eleganza spartana a dir poco ammirevoli. In almeno una scena di sparatoria Blackhat non ha davvero nulla da invidiare ai precedenti capolavori del cineasta.
Rispetto a vere e proprie lezioni di cinema contemporaneo, come Collateral (id., 2004) o The Insider (Insider, 1999), Blackhat non è stato costruito per comporsi come un puzzle perfetto, quanto piuttosto per essere cinema irruento, potente, oseremmo dire selvaggio. Si respira per tutte le due ore abbondanti del film la voglia di Mann di tornare dietro la macchina da presa, di colpire lo spettatore con la sua idea di cinema vigorosa, elegante nel suo essere anche (anzi, forse soprattutto) grezza.
Blackhat è uno spettacolo senza dubbio impervio in alcuni momenti, ma per chi conosce il suo autore è cinema viscerale ed estremamente emozionate. A impreziosire l’opera poi un cast azzeccatissimo, in cui primeggiano sorprendentemente i due attori di origine asiatica Leehom Wang e soprattutto una Wei Tang, bellissima e dolorosa, attrice notevolmente cresciuta dai tempi di Lust, Caution (Lussuria, 2007) di Ang Lee.
È forse cinema d’altri tempi quello che Michael Mann continua a fare. Probabilmente è rimasto un mezzo giro indietro rispetto a quando il mercato del cinema hollywoodiano di genere oggi esige. A noi personalmente poco importa, poiché continuiamo a vedere nei suoi lungometraggi un discorso poetico e stilistico totalmente coerente, abbinato a una volontà granitica nel portarlo avanti.
Finché realizzerà film come Blackhat, magari anche scomposti, ma sempre infuocati, Mann rimarrà il nostro cineasta vivente preferito.