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December 15, 2014
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A Courmayeur tutti i colori del noir con un occhio alle serie TV made in the US

Simone SpoladoribySimone Spoladori
Time: 6 mins read

Probabilmente non tutti i newyorchesi sanno che in Italia, ogni anno, alle soglie del Natale, a Courmayeur, una delle località più esclusive delle Alpi, si svolge un piccolo festival “di genere” che si configura come una delle manifestazioni più ricche e interessanti del caotico panorama italiano.

Si tratta del Courmayeur Noir in Fest, rassegna di cinque giorni dedicata alla narrativa noir: cinema, soprattutto, con una decina scarsa di lungometraggi internazionali a contendersi il “Leone nero”, ma anche tanta letteratura, dibattiti, serie televisive, incontri. Filo conduttore, ovviamente, il “noir”, il più indefinibile e indecifrabile fra i generi della narrativa, tanto da poter essere difficilmente classificabile in definizioni che abbiano pretese di esaustività.

In questa edizione 2014, due fattori in particolare hanno “remato” un po’ contro a questa specie di “Sundance” italiano: la crisi – che porta gli organizzatori di questo e di ogni altro festival a dover fare fastose nozze con i fichi secchi – e l’assenza di neve, che non solo ha tolto suggestione alla cornice, ma ha anche ridotto il numero di turisti transitanti per le vie della bella cittadina valdostana.

Nonostante, quindi, un evidente “tono minore”, più subìto che scelto, il Noir Film Fest ha offerto tantissimi spunti di grande interesse e naturalmente numerosissimi riferimenti agli States, da sempre protagonisti della letteratura e del cinema noir.

Vediamo insieme i più rilevanti.

Il concorso internazionale

Sette film in concorso, un livello medio più che buono. Concentriamo però la nostra attenzione su tre titoli. In primo luogo il vincitore, di cui è necessario dar conto, il thriller inglese Black Sea, di Kevin MacDonald, con Jude Law, film scritto dal drammaturgo inglese Dennis Kelly (famoso per la pièce After the End e per la serie TV Utopia). Si tratta di un thriller claustrofobico ambientato all’interno di un sottomarino che percorre il Mar Nero alla ricerca di un misterioso tesoro smarrito dai nazisti; l’equipaggio, multietnico e male assortito, non riesce a gestire i conflitti interni, dando vita ad una cruenta battaglia interna. Il film – che uscirà negli Stati Uniti il prossimo 23 Gennaio e in Italia circa un mese dopo – è un thriller ben confezionato anche se un po’ grossolano e con diversi ingranaggi che non funzionano come dovrebbero, un’opera semplice, ruffiana e “vintage” al punto giusto per coinvolgere il pubblico che, da quest’anno, sostituisce la giuria nel decretare l’assegnazione del Leone nero.

Doverosamente menzionato il vincitore, va detto invece che i due film più interessanti della selezione sono senza dubbio l’italiano In the box, dell’esordiente Giacomo Lesina, e l’ungherese White God, già premiato a Cannes.

posterSul primo, segnaliamo agli amici newyorchesi che è già stato venduto in venticinque paesi del mondo, tra cui gli Stati Uniti, quindi avrete il piacere di vederlo, anche se una data d’uscita non è ancora disponibile. In Italia uscirà tra febbraio e marzo, ed è un film da non perdere, in quanto costituisce uno sforzo notevole, nell’ambito del cinema italiano, di andare oltre cliché e stereotipi consolidati che asfissiano la nostra produzione, per percorrere strade nuove. Un film claustrofobico e con una costruzione fortemente simbolica, totalmente ambientato in un garage in cui una donna – interpretata splendidamente dalla bellissima e bravissima Antonia Liskova – si trova inspiegabilmente rinchiusa con tanto di tubo che propaga monossido di carbonio. C’è la dimensione reale ma, come detto, c’è anche una dimensione fortemente simbolica, che costituisce l’aspetto più interessante del film: la donna è prigioniera anche di un profondo senso di colpa per la perdita del primo figlio, di cui si sente responsabile, e dentro al garage è costretta dalla presenza di alcuni elementi che vengono via via scoperti a rivivere il trauma che l’ha intrappolata. Ben diretto da Giacomo Lesina, ben scritto da Germano Tarricone, ben fotografato e ben recitato (in inglese), è un film che merita attenzione e che parla un linguaggio insolito per il cinema italiano.

White God è stato a mio modo di vedere il momento più alto di questa edizione. Già trionfatore a Cannes nella sezione Un Certain Regard, è un suggestivo apologo sociale e politico che inizia come un family drama, richiama Torna a casa Lassie e poi diventa un’affascinante metafora su ogni forma di discriminazione razziale e di classe. Tecnicamente e visivamente superbo, diretto dall'ungherese Kornel Mundruczo, ritrae magistralmente le tensioni politiche e sociali che attraversano il paese magiaro da qualche tempo a questa parte.

Noir seriale e noir speciale

Tra gli eventi speciali che hanno gettato un ponte tra Courmayeur e gli Stati Uniti, rientra sicuramente l'anteprima di due serie televisive decisamente noir che oltreoceano hanno riscosso un successo importante. La prima Lylyhammer, TV serie di produzione norvegese/statunitense, che ha ottenuto un enorme riscontro nel paese scandinavo e poi su Netflix negli States e che in questi giorni approda anche in Italia su Sky Atlantic. La vicenda racconta di un mafioso newyorchese che, diventato collaboratore di giustizia, viene ricollocato con una nuova identità nel piccolo paese olimpico di Lillehammer in Norvegia. Divertente, ritmata e ironica nel mettere a confronto gli eccessi di due società apparentemente antitetiche come quella americana e quella norvegese, non brilla certo per originalità e innovatività. 

Tutt'altro discorso per Fargo, la seconda serie passata in anteprima al Noir, strepitoso prodotto costruito a partire dal capolavoro assoluto dei fratelli Coen del 1996. Mentre per gli spettatori statunitensi è ormai un pallido ricordo, dato che la serie è stata trasmessa da Fox Extended lo scorso mese di aprile, da noi approderà su Sky Atlantic tra una settimana, e dobbiamo dire che non possiamo che allinearci con buona parte della critica americana, dato che il pilot ci è parso avvincente, complesso, intricato e ricco di uno humour nero straordinario, per quanto diverso da quello inimitabile dei Coen. È come se la sensibilità dei due fratelli si fosse felicemente mescolata con il nichilismo southern di serie come True Detective o The Walking Dead.

Tra gli eventi speciali più appassionanti, c’è senza dubbio l’omaggio al grande Mario Bava, in occasione del centesimo anniversario della sua nascita e del cinquantesimo dall’uscita di Sei donne per l’assassino. Proprio quest’ultimo titolo, che negli States è stato distribuito con il titolo di Blood and Black Lace, è stato presentato in una suggestiva proiezione notturna in una scintillante versione restaurata che sarà presto distribuita in tutto il mondo e che è un piccolo gioiello visivo da non perdere. Date un’occhiata ai titoli di testa nel video riportato qui sotto per capire quanto sia stato importante per la storia del cinema mondiale un genio visionario come Mario Bava, come hanno sottolineato puntualmente in bel dibattito Dario Argento e il figlio Lamberto.

 

Nero di carta e di parole

Jefferey Deaver è stato il grande ospite di questa edizione, insignito con il Raymond Chandler award, premio alla carriera come miglior romanziere noir. Lo scrittore è stato protagonista di una bellissima conversazione con l'altro premiato di questa edizione, Gianrico Carofiglio, che si è aggiudicato meritatamente il premio Scerbanenco per il suo ultimo La regola dell'equilibrio, noir sociale sull'Italia malconcia di oggi. Deaver ha avuto modo di parlare a lungo di L'ombra del collezionista (negli states The Skin Collector), romanzo con cui riporta in vita gli storici detective Lincoln Rhyme e Amelia Sachs.

Ha chiuso il festival il vero noir moderno per definizione, il film che ha "rotto" il genere definitivamente, lasciando spazio per l'avvento, anni dopo, del cosiddetto post-noir e del neo-noir: Blade Runner, di Ridley Scott, nell'ennesima versione director's cut, magnificamente restaurata, che sarà presentata a Londra nelle prossime settimane. Una versione che non aggiunge nulla al capolavoro di Scott, ma ha il pregio di riportarlo nuovamente sotto la luce dei riflettori e di donargli una vitalità visiva importante, destinata a consolidare l'immortalità di questa imprescindibile pietra miliare.

Sotto la luce dei riflettori merita indubbiamente di stare anche questo piccolo ma longevo festival, che vale un'attenzione mediatica anche più importante di quella che si è già meritatamente guadagnato. Soprattutto gioverebbe una maggiore attenzione dall'estero, dato il suo carattere spiccatamente internazionale. 

 

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Simone Spoladori

Simone Spoladori

Nato a Milano, laureato in lettere e laureando in psicologia, di segno pesci ma non praticante, soffro di inveterato horror vacui. Autore per radio e TV, critico cinematografico, insegnante, direttore di un'agenzia creativa di Milano. Oltre ai film, amo i libri e credo che la letteratura americana del '900 una delle prime tre cose per cui valga la pena vivere. Meglio omettere le altre due. Drogato di serie TV, vorrei assomigliare a Don Draper, a Walter White o a Jimmy McNulty. Quando trovo il tempo, mi diverte a scalare montagne, fare foto, giocare a tennis, cucinare e soprattutto mangiare ciò che cucino. Sono malato di calcio, tifo Manchester United e Milan, ma la mia vera guida spirituale è Roger Federer.

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