Una delle cose più difficili da raccontare al cinema è la “scintilla creativa”: come descrivere per immagini il mistero dell'ispirazione, la profondità dell'introspezione e lo schiudersi del genio senza essere didascalici e verbosi? Mario Martone sceglie di cimentarsi con questa sfida, aggiungendo anche una serie di difficoltà se vogliamo ancora più estreme. Il personaggio di cui sceglie di raccontare la grandezza, infatti, non è una rockstar, come Bob Dylan o Kurt Cobain, icone contemporanee raccontando le quali è possibile concedersi manciate di ammiccamenti pop, ma nientemeno che il conte Giacomo Leopardi, il più grande poeta della letteratura italiana: da un lato, quindi, il rischio della pedanteria, dall'altro, invece, il timore di risultare dissacrante e iconoclasta. In più, il pericolo del trash, sempre in agguato quando si maneggia materiale così vivo nell’immaginario collettivo e oltretutto ingiallito da approcci scolastici spesso molto asfittici.
Per capire come e quanto Martone sia riuscito nell'impresa, basterebbe guardare l'ultima sequenza, che racconta il punto d'arrivo dell'itinerario poetico di Leopardi, la composizione de “La ginestra”, che ne Il giovane favoloso si trasforma in un momento di cinema da brividi: la potenza distruttrice della natura vulcanica del Vesuvio si mescola – con una modalità quasi “malickiana” – alla voce fuori campo di Germano che recita i versi, dirompenti, della più incredibile poesia leopardiana.
Il biopic di Martone, il migliore dei tre italiani in concorso quest’anno a Venezia, non vola sempre così alto; qua e là incappa in qualche eccesso di didascalismo e a volte indugia in un calligrafismo forse superfluo, ma complessivamente riesce a raccontare ben più della vita del poeta di Recanati, a farne percepire la grandezza, la sensibilità smisurata, l'intelligenza fuori del comune. Uno degli aspetti che colpisce maggiormente nel film di Martone è la colonna sonora, soprattutto per quella parte affidata al dj berlinese Sacha Ring, che accompagna con un eccezionale tappeto elettronico i momenti più intensi della vita di Leopardi, dando vita ad un “contrasto di epoche” che ha l'effetto immediato di proiettare la vicenda del poeta in un'ottica "fuori dal tempo” e di suggerirne la trasversalità dell’ispirazione. Non va infine dimenticato naturalmente Elio Germano (ottimamente intervistato dalla nostra Chiara Spagnoli), che naturalmente è il cuore portante del film, straordinario e misurato, evita tutti gli enormi rischi che un ruolo del genere portava con sè e si candida seriamente alla Coppa Volpi come miglior attore.
Se, come anticipato, Il giovane favoloso è il migliore dei tre italiani in concorso, va detto che comunque il complesso delle opere proposte si attesta su un livello complessivamente alto. La “gestione Barbera”, da questo punto di vista, sembra aver cambiato qualcosa rispetto alla lunga era Müller. Si percepisce una maggiore severità verso gli italiani, cui non viene più concesso una sorta di lasciapassare in nome del “fattore campo”, e questa scrematura produce, in tutte le sezioni, una diminuzione del numero dei titoli italici e proporzionalmente un'impennata della qualità.
Anime Nere di Francesco Munzi è un “crime movie” compatto e scorrevole, sobrio, asciutto, che lavora di sottrazione e di raffreddamento nella costruzione di una tragedia familiare nel cuore della ‘ndrangheta. È la prima volta che il cinema italiano fa i conti con la criminalità della Locride (non ricordo altri film di ambientazione calabrese). Munzi non ha quindi un immaginario filmico di riferimento, ha il vantaggio e lo svantaggio di doverlo creare da zero. Lo fa con un approccio radicale e “arcaico”, si immerge nella primitività dei pastori di Africo, con un’asciuttezza disadorna da tragedia greca, e compie una scelta alla lunga vincente che conferisce al film una forza primitiva affascinante. Ben fotografato da Vladan Radovic, che opta per tinte cupe e distanti dai cliché di genere, tratto dall’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco, il film di Munzi ha qualche cedimento di scrittura soprattutto nella parte centrale, dopo la prima delle tragedie che colpiscono i tre fratelli protagonisti del film, e zoppica un po’ quando deve tracciare le coordinate emotive che regolano i rapporti tra i personaggi quando la temperatura emotiva della storia inizia a salire.
Hungry Hearts di Saverio Costanzo è un film destinato a dividere, il che potrebbe essere già un dato positivo, indice di personalità “autoriale”. Costanzo in quanto ad autorialità ne ha da vendere e apre alla grande il suo film, con una bellissima scena che racconta in piano sequenza, con un'inquadratura statica, l'incontro tra i due protagonisti, interpretati da Alba Rohrwacher e Adam Driver, bloccati per caso in una toilette di un ristorante cinese a New York. La cifra stilistica del film rimane questa: spazi bloccati, chiusi, angusti, incombenti, talvolta deformati da ottiche che schiacciano i personaggi contro i limiti soffocanti della loro esistenza. Costanzo ci racconta una storia d’amore tra due giovani che inizia come un sogno, ma che le loro fragilità trasformano in un incubo quando nasce un bambino e Mina annulla completamente la sua vita per dedicarsi alla cura del piccolo. Il fondamentalismo vegano che la caratterizza non va scambiato, come hanno fatto alcuni, per chissà quale discorso di Costanzo sugli OGM, bensì è "solo" un simbolo di quanto pericolosi siano gli atteggiamenti di coloro che credono di essere gli unici depositari della verità e in nome di quella costruiscono una fortezza inespugnabile di egoismo. A tratti affascinante, in altri momenti geniale, sempre molto consapevole anche nel giocare con registri diversi e ammiccamenti di genere, Costanzo mostra qualche limite di scrittura da metà film in poi, quando i suoi personaggi perdono spessore e alcune dinamiche si sfilacciano davanti ad azioni non così convincenti sul piano psicologico.
Questo è, in breve, il ritratto del cinema italiano che esce dal concorso del maggiore dei festival del nostro paese. Segnali incoraggianti vengono anche dalle sezioni collaterali, dove hanno convinto film come I nostri ragazzi o Senza nessuna pietà. Siamo peró ancora nel pieno di una crisi di idee e di spunti, nel mezzo di una situazione in cui, a Roma e dintorni, continuano a dominare regole e prassi. Dopo la stagione dell’Oscar a Sorrentino, del premio a Cannes ad Alice Rohrwacher, di esordi di grande interesse come La mafia uccide solo d’estate di Pif e Smetto quando voglio di Sidney Sibilia, anche Venezia lancia dei piccoli segnali positivi. Le logiche che intravedremo nelle pieghe della premiazione di sabato ci racconteranno qualcosa in più sui prossimi passi dell’inguaiato cinema italiano.