Il 30 ottobre 1938, durante un programma della stazione radiofonica della CBS (Columbia Broadcasting System), Orson Welles, un giovane futuro grande attore, sta per andare in onda con il suo programma radiofonico nella notte di Halloween. Si parla de La guerra dei mondi, tratto dall'omonimo romanzo fantascientifico di H. G. Wells. Il futuro regista, come aveva programmato, fa qualcosa di straordinario, annuncia, fingendo, che a breve e nel New Jersey, avverrà un'invasione aliena. Ben presto il panico si diffonde. La trasmissione è costretta ad interrompersi. Molti si riversano per le strade in preda ad un’isteria collettiva convinti di uno sbarco extraterrestre.
È un famoso aneddoto significativo. Simile a quello raccontato dal filosofo francese Guy Debord, autore del testo La società dello spettacolo, nel quale prediceva la particolare situazione che si sarebbe creata, ad esempio, in un cinema nel momento in cui uno spettatore avesse urlato, simulando, “al fuoco, al fuoco”. Tutti si sarebbero riversati verso le uscite di sicurezza, ipotizzando la situazione come realizzabile.
Si tratta di due celebri aneddoti in grado di dimostrare, in largo anticipo sui tempi, come in realtà il linguaggio dell'informazione sia molto simile a quello della fiction, rendendo il confine, ad esempio, tra giornalismo e pura invenzione non del tutto trasparente.
Il mondo reale e la fiction, intesa come mondo possibile, verosimile, intrattengono un rapporto dal carattere metaforico, ma soprattutto creano una combinazione in grado di mettere ordine. Narrare significa dare ordine e senso agli eventi, definirne la sequenza temporale e i nessi causali, far comprendere i significati simbolici e morali.
Prevedendo questo trend un massmediologo, Raymond Williams, coniò il neologismo “faction”, commistione tra fiction e fact , con l’intenzione di superare la distinzione tra i due termini, Il primo come narrazione che possa dar vita ad una nuova realtà, mentre il secondo come informazione pura e/o storiografica. La fusione dà invece vita ad un genere meticcio, ibrido, un insieme di informazione, intrattenimento e fiction, ormai sempre più diffuso.
In questo senso, in Italia, abbiamo assistito negli ultimi giorni ad un grandissimo successo, appunto, di faction. Si tratta della serie televisiva Gomorra, che, a partire dal testo di Roberto Saviano, capace di vendere oltre 10 milioni di copie in tutto il mondo, è risultata la più vista di sempre sui canali pay per view italiani. Grande successo di pubblico e di critica, unanimi nel definirla uno dei migliori prodotti di fiction mai fatti in Italia. Il successo segue quello di pochi anni prima, altrettanto straordinario, che aveva portato sul piccolo schermo le gesta romane della Banda della Magliana, raccontate da Giancarlo De Cataldo in Romanzo Criminale. La firma delle due serie è di Stefano Sollima, regista e sceneggiatore. Sulla base solo dello script, la serie è stata venduta dal distributore internazionale Beta Film in oltre 40 paesi, tra cui gli Stati Uniti.
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La serie, ambientata per la maggior parte a Scampia, luogo tristemente noto di Napoli per la forte presenza della Camorra, del degrado, della droga, della violenza, racconta la rivalità tra i clan camorristi, in particolare tra quello di Don Pietro Savastano e Salvatore Conte.
Il trend di successo del racconto criminale segue quello degli anni’80 e primi anni ’90 de La Piovra, nella quale si raccontava soprattutto di Mafia. Poi, dopo un blocco di alcuni anni, le grandi affermazioni di Romanzo Criminale e Gomorra.
Molti hanno detto e scritto che queste produzioni hanno esportato una pessima immagine dell’Italia. Ci viene da pensare, in risposta, che la realtà e i fatti quotidiani, in particolar modo quando si tratta di associazioni criminali, ne esportino una ben più orribile. In ogni caso queste serie televisive hanno aiutato a comprendere meglio i fenomeni criminali, non solo dal lato criminale ma anche da quello sociale e culturale, certamente più complessi. Il demoniaco arruolamento di nuove giovani leve camorriste, spesso all’inizio ingenue o ignare di cosa passi sopra le loro teste, giocato tra il desiderio di una nuova moto o di un cellulare ultramoderno, l’orgoglio di dimostrare di essere bravo e migliore degli altri, l’impossibilità di mostrare paura difronte ai boss locali che non possono essere delusi, causa il discredito sociale, è esemplare di una realtà alla quale sembra impossibile sfuggire.
I personaggi – non ce n’è uno che stia dalla parte del bene – sono tutti profondamente infelici, soli, cupi, vittime della loro stessa ambizione, del loro potere e di quello degli altri. Inseguono sempre qualcosa, ma l’asticella si sposta sempre più in alto e per raggiungerla sono costretti a lasciare dietro di sé desolazione, morte ed un parte del proprio sé che mai più ritroveranno.
La forte immedesimazione che una serie come questa crea nell’ascoltatore, e non certo l’emulazione che è un’altra cosa, è indicatore di un grande successo. È la forza del verosimile che fa entrare nei sotterranei del male, nelle sue viscere, nei lati oscuri, che però assurdamente sembrano emergere come normali. Il telespettatore è costretto continuamente a questa presa di coscienza e alla successiva distanza, ad un lavoro interpretativo attivo che rende l’esperienza fortemente partecipata. E non ci sono esagerazioni, è lo stesso Saviano a dirci che la realtà “è già oltre” quanto si possa vedere sul piccolo schermo.
Ne consigliamo, pertanto, fortemente la visione. Non tanto perché ci teniamo a far sapere che abbiamo ottime produzioni di fiction, che nulla hanno da invidiare ai celeberrimi Boardwalk Empire, Game of Thrones o Breaking Bad, seppur ognuno abbia la sua identità, ma perché attraverso una storia italiana entriamo nella storia dell’essere umano, nei suoi risvolti più crudeli e tragici.
Se molti hanno provato a fare sulla terra un paradiso, questa è la rappresentazione dell’inferno sulla terra che non si è più in grado di riconoscere, allo stesso modo di come ne parlava Italo Calvino: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.