Ci hanno provato e continuano a provarci i revisionisti, quelli che “italiani brava gente”, a far passare l’idea che il fascismo primo periodo non fosse poi tanto male, a far dimenticare la vera natura di un movimento che è stato violento e dittatoriale sin dai suoi primi passi. Troppo spesso anche gli italiani d’America, che la lontananza geografica ha forse contribuito a isolare in un limbo di relativismo storico, si ritrovano ingabbiati in questa retorica che perdona e scusa (se non esalta) il fascismo fino agli anni delle leggi razziali. L’assunto che sta dietro questa prospettiva distorta è che il movimento di Mussolini non fosse di per sé brutale ma che lo sia diventato nel momento in cui si è accostato al nazismo di Hitler.
A sfatare questi miti è la storia stessa che racconta dei tanti delitti, delle violenze, dei soprusi di cui il fascismo fu protagonista ben prima delle leggi razziali, prima del colonialismo, prima della seconda guerra mondiale, prima ancora che l’Europa si accorgesse di Hitler. Uno per tutti: il delitto Matteotti.
In vista della ricorrenza del 90° anniversario dell’assassinio Matteotti, la Casa italiana Zerilli-Marimò della NYU, in collaborazione con il Centro Primo Levi, ha voluto festeggiare la ricorrenza della Festa della Repubblica con una conferenza, un dibattito e una proiezione dedicati alla figura dell’uomo politico italiano ucciso dal fascismo, aprendo nuove prospettive sulle ragioni della sua eliminazione.
“Purtroppo Matteotti è una figura ancora troppo poco nota, ma dovremmo conoscere meglio questo personaggio che è stato molto importante nel processo che portò alla creazione della Repubblica anche se venne ucciso 20 anni prima”, ha detto Stefano Albertini aprendo l’evento che ha visto dietro il podio della Casa Italiana due storici dai due lati dell’Atlantico: Mauro Canali, dell’Università di Camerino, autore di vari testi sul fascismo, e Spencer Di Scala, della University del Massachusetts, esperto di storia europea.
“Matteotti è stato ingiustamente dimenticato dalla storia – ha esordito Canali nel suo denso intervento – e il poco di notorietà che si è guadagnato è dovuto alla sua fine tragica”. L’uccisione di Matteotti, ha spiegato Canali, segnò un crocevia e una svolta per il fascismo, mettendo fine al cosiddetto periodo legalista del regime di Mussolini e lasciando spazio a pratiche apertamente violente e autoritarie. Il dittatore fu costretto a mostrare il suo vero volto, con la conseguenza di allontanare la parte più moderata dei sostenitori del fascismo.
Se la storia ha da sempre voluto spiegare il delitto Matteotti come puro delitto politico volto ad eliminare un oppositore che si faceva sempre più scomodo, la spiegazione di Canali va in altra direzione. Dopo anni di ricerche, Canali è riuscito ad avere accesso agli atti istruttori conservati alla London School of Economics, fotografati dall’avvocato della famiglia Matteotti che li spedì in custodia a Gaetano Salvemini che si trovava a Londra. Materiale che, insieme alle lettere spedite dal carcere a Mussolini da Amerigo Dumini, colui che fu ritenuto a capo del commando che rapì e uccise Matteotti, hanno convinto Canali non soltanto del fatto che, al di là di ogni ragionevole dubbio, il duce fosse il mandante dell’omicidio, ma anche della parzialità della spiegazione generalmente accettata e raccontata dalla storiografia.
“A maggio – ha spiegato Canali – un mese prima di essere ucciso, Matteotti aveva scritto un articolo che sarebbe poi apparso a luglio su English Life, in cui diceva di essere in possesso di prove che dimostravano la corruzione di alti funzionari dello stato per una concessione petrolifera di cui avrebbe beneficiato la famiglia Mussolini e nello specifico il fratello del duce, Arnaldo. Matteotti aveva intenzione di denunciare quanto sapeva e di rendere pubbliche informazioni che provavano che l’americana Sinclair Oil stava facendo da battistrada in Italia per la Standard Oil, pagando mazzette al duce e al re per esplorazioni petrolifere ad ampio raggio”.
Canali non è l’unico a sostenere questa tesi, ma la documentazione da lui raccolta offre inedite evidenze sui retroscena del delitto.
All’uccisione di Matteotti seguirono indagini che portarono i giudici all’arresto di personaggi vicinissimi al duce. Il cerchio si stava stringendo intorno allo statista che stava iniziando a farsi nervoso. Tanto nervoso che alla fine decise che era arrivato il momento di ammettere almeno parte delle responsabilità. Nel gennaio del 1925 Mussolini pronunciò un discorso in cui si assunse personalmente le responsabilità morali del delitto, pur senza ammettere di esserne stato il diretto mandante e allo stesso tempo trovando modo di esaltare il fascismo e i suoi valori. Di fatto quello che Mussolini affermava era che il suo movimento aveva sì creato il clima politico in cui delitti come quello Matteotti (ma non solo) erano stati programmati e realizzati, ma il fascismo non era solo “olio di ricino e manganello” bensì un impeto di riscossa, “una passione superba della migliore gioventù italiana”.
Le violenze che Matteotti aveva sempre cercato di denunciare all’interno dei gruppi fascisti, venivano così ammesse e accettate come parte costitutiva del movimento. Ma l’eredità di Matteotti, socialista e oppositore del fascismo come anche del comunismo e di tutte le forme di potere autoritario, non si esaurì. L’uomo politico socialista si era opposto anche a chi all’interno del suo partito voleva collaborare con il fascismo. Il suo pensiero, ispirato da Filippo Turati, sulla cui figura si è concentrato l’intervento di Di Scala che ha delineato il contesto politico in cui si sviluppò il pensiero di Giacomo Matteotti, ebbe una larga influenza. Turati riteneva che la rivoluzione dovesse avvenire attraverso una lenta trasformazione e non attraverso atti violenti. La presa di posizione di Mussolini sul delitto Matteotti svelò il nesso inscindibile tra fascismo e violenza. Il funerale di Matteotti fu un momento di presa di coscienza collettiva. La sua uccisione segnò uno spartiacque e costrinse il fascismo a mostrare la sua vera natura.
Alla presentazione dei due storici alla Casa italiana NYU è seguito un dibattito, moderato da Alessandro Cassin del Centro Primo Levi, a tratti acceso che ha evidenziato, ancora una volta, come il mito del fascismo buono sia duro a morire e come sia necessario ancora oggi conservare l’eredità di chi si oppose all’autoritarismo e alla violenza, fin dalla prima ora. Per sottolineare l’importanza di quella eredità, prima di passare alla proiezione del film di Florestano Vancini ll delitto Matteotti (1973), Stefano Albertini ha voluto concludere il dibattito con la celebre frase di Matteotti: “Uccidete pure me, ma l’idea che è in me non l’ucciderete mai”.