Partire da un evento qualunque di vita quotidiana e renderlo una parabola esistenziale capace di toccare le corde profonde dell’anima umana. E’ questo che il buon cinema può fare, quello che non punta a dimostrare tesi ma a raccontare prima di tutto storie che potrebbero succedere a tutti noi.
Locke inizia infatti nel più comune dei modi: un uomo ancora vestito con gli abiti da lavoro (un cantiere edile) entra nella sua auto e si mette a guidare. Al primo semaforo ha un attimo di esitazione, poi svolta e inizia il suo viaggio. Dopo pochissime scene capiamo immediatamente che Steven Knight (regia e e scenaggiatura) ha trasformato l’interno di un’automobile in un microcosmo chiuso, un universo di solitudine dove si può compiere il destino di un uomo qualunque. Solo con sé stesso, diretto verso un qualcosa che sta radicalmente cambiando la sua vita, Ivan Locke è una persona qualsiasi che deve far fronte ai danni provocati dalla propria fragilità. E insieme è anche un antieroe estremamente moderno, ambivalente, dilaniato, costretto all’isolamento sia fisico che emozionale dalle circostanze.
Il regista, con notevole abilità, costruisce un universo visivamente rarefatto e straniante partendo dalla rappresentazione di un’autostrada qualsiasi, quella che porta il protagonista verso Londra. Un viaggio partito come totalmente realistico che però pian piano si trasforma in fortemente simbolico, in quanto durante il percorso Locke si trova ad affrontare dilemmi esistenziali forse addirittura più grandi di lui. Come comportarsi quando si hanno a disposizione soltanto scelte che porteranno a una soluzione infelice? Imboccare quella che si ritiene la strada più giusta e affrontarne le conseguenze. Knight mette in scena questo percorso attraverso un’idea di cinema che nasconde la metafora invece di ostentarla, e per questo colpisce totalmente nel segno. Coadiuvato da un Tom Hardy efficacissimo, capace di non andare mai sopra le righe anche quando il suo personaggio sbanda leggermente nei suoi soliloqui, lo sceneggiatore di Dirty Pretty Things e Eastern Promises costruisce un puzzle psicologico di rara fattura emotiva, dimostrando di essere uno dei migliori scrittori in circolazione. Senza eccedere mai in svolte narrative eccessivamente melodrammatiche il film si sviluppa con una potenza emotiva impressionante, fino ad arrivare a un finale che invece di essere fintamente consolatorio, è insieme aperto e toccante.
Non è sicuramente cinema innovativo o particolarmente originale quello proposto da Locke, ma pensato e realizzato con coerenza ed ammirevole lucidità. Knight ha realizzato un lungometraggio tanto “piccolo” quanto capace di esplorare tematiche enormi come il senso di responsabilità, il confronto con i demoni del passato, l’attaccamento alle persone che amiamo. Senza risposte certe né tantomeno preconfezionate, il film ci mostra uno spaccato di vita breve e tremendamente vero. Di quelli che si ricordano.