Che cosa hanno in comune cibo e design? Tanto, e se poi il connubio avviene sotto i buon auspici del made in Italy diventa sinonimo di bellezza e qualità, due principi da cui non si può prescindere se si vuole vivere bene. Lo sa bene il network messo in piedi da Eataly, che vede coinvolti partner d’eccezione nella promozione della cultura italiana nel mondo: da Arclinea, a Lavazza e Barilla, tutti chiamati a contribuire, ognuno per il proprio settore d’appartenenza, al piano d’attività che il più grande mercato del mondo intende implementare. L’obiettivo, illustrato nel corso di un incontro per la stampa e gli operatore del settore, martedì 29 parile nella sede Eataly di New York, è quello di arrivare all’apertura di 10 stores Eataly negli Stati Uniti (il secondo a New York in concomitanza con l'apertura dell'Expo 2015) ed essere, dunque, più capillari nell’incoraggiare il popolo americano a scoprire in profondità l’autenticità della cultura italiana, che oggi sembra sentire il bisogno di uno scossone. Negli Anni 70 eravamo il Paese più visitato al mondo, oggi invece siamo scesi al quinto posto. Eppure la qualità dei nostri prodotti e del nostro paesaggio non è cambiata: custodiamo il 70% del patrimonio artistico mondiale, il nostro agroalimentare è tra i più richiesti al mondo, ma incredibilmente abbiamo sempre meno visitatori stranieri, rispetto ad altri Paesi meno attraenti.
Qualcosa evidentemente l’avremo sbagliato. Oscar Farinetti, il fondatore di Eataly, un’idea ce l’ha: è difficile essere semplici, di quella semplicità tipica del popolo americano, perennemente propenso al dubbio e per questo curioso ed esplorativo.
"Noi italiani siamo sempre sicuri di tutto – ci spiega – gli americani, invece, iniziano sempre un discorso con il maybe e a forza di dire maybe sono diventati il popolo più potente al mondo".
It’s difficult to be simple è la scritta che Farinetti ha voluto per il cartellone di presentazione dell’iniziativa; accanto, su un monitor, La Rotonda di Palladio, un’immagine scelta non a caso e che ben rappresenta la bellezza del paesaggio italiano, scolpito non solo dall’architetto, ma anche dal contadino, non ce lo dimentichiamo.

La squadra del Made in Italy, ieri alla Scuola di Cucina di Eataly New York: da sinistra, Silvio Fortuna, Oscar Farinetti, Piero Galli (Expo 2015), Ennio Ranaboldo (Lavazza USA) e Jean Pierre Comte (Barilla America)
"La sfida – aggiunge – è riuscire a mettere insieme le vere grandi bellezze italiane. Il cibo è una bellezza, vederlo nascere, veder fare la mozzarella, vedere il pane impastato a mano… è una bellezza. Questi cibi, però, vanno cucinati e conservati nelle cucine. Se queste cucine sono belle e uniche, come unica è la biodiversità del cibo italiano, si vive meglio. A cosa serve la bellezza se non a vivere meglio?".
La cucina della Scuola all’interno di Eataly New York è firmata Arclinea e ben esalta l’eccellenza del cibo e del vino italiani. La sfera del cibo incontra quella del design, all’insegna dell’innovazione, della coerenza e dell’armonia. Del resto oltre al Fashion, tra le 3 “F” in cui il nostro popolo va forte ci sono anche il cibo (Food) e il design (Furniture), due tradizioni nostrane vincenti che all’estero sono diventate un vero e proprio stile di vita.
"Trent’anni fa – ci racconta Silvio Fortuna, il fondatore di Arclinea e anch’egli tra i primi esploratori del nuovo mondo – il made in Italy non esisteva; l’America era molto tradizionalista, poi attraverso l’evoluzione del gusto, che ha coinvolto anche il cibo, e l’avvicinarsi degli americani alla cultura italiana ha iniziato a preferire prodotti di design italiano, un’attitudine che non riguarda semplicemente la scelta di un prodotto, ma un vero e proprio modo di vivere".
Per Farinetti il popolo del Nord del mondo che si rende meno conto della potenza del Made in Italy è proprio l’Italia, un paradosso che se riusciamo a invertire farà degli italiani i fornitori della bellezza nel mondo, magari imparando dagli americani a preferire la semplicità. Farinetti questa cosa l’ha presa talmente tanto sul serio che vuole lanciare il primo Maybe Festival, per imparare la supremazia del dubbio sulle certezze.
"Avere un dubbio – conclude – non significa non agire: il dubbio è curiosità e capacità di ascolto e la capacità di ascolto favorisce una delle cose più belle al mondo: la capacità di cambiare idea".
Aspettiamo di essere invitati al festival del forse!