È come essere catapultati in C'era una volta in America. Le strade di Scampia diventano le strade di Brooklyn, a New York. Solo che al posto del Ponte, sullo sfondo, ci sono le Vele. Ragazzini che giocano a fare i grandi e che conoscendo solo la violenza e l'arroganza, usano come ricetta per il loro futuro la stessa arrogante violenza mescolata alla voglia di essere rispettati e temuti. E questo è l'ingrediente che allontana questa storia dalla banalità e dalla insopportabile retorica antimafia troppo spesso fine a se stessa. Nuovi linguaggi al servizio del sociale.
La ricetta per una storia ben raccontata e piena di emozioni forti è l'interpretazione brillante dell'attore che in un monologo da 50 minuti interpreta i 3 personaggi che compongono la vicenda, e alcune parti minori che stringono il racconto. Senza mai annoiare o lasciare tempo a distrazioni.
Il protagonista principale è un ragazzo figlio di questa generazione che non fa sconti. Scritta e interpretata dall'attore napoletano, Gianni Spezzano, l'opera – un po' di impegno civile con tratti delle migliori crime story, un po' noir – si intitola Patrizio, come quei divi di Hollywood che sono eterni. Con la regia di Marcello Cotugno, anche lui napoletano, lo spettacolo è prodotto dalla TheA'teRm.
Vincitore della quinta edizione del premio Teatri riflessi come miglior regia e miglior performer. Primo classificato a Uno festival, monologhi teatrali e premio miglior attore. Presentato a Firenze, Arezzo e Catania, le ultime quattro repliche sono state fatte a Roma, al Teatro Spazio Uno di Trastevere, in collaborazione con daSud, l'associazione anti-mafie di cui faccio parte.
Il teatro è un mondo a parte. Il teatro civile poi, spesso serve a fare aprire gli occhi sulla realtà che si fa finta di non vedere. Il problema vero, soprattutto quando si parla di mafia, è che spesso si vada incontro ad una sceneggiatura piena di luoghi comuni, preconcetti, ovvie banalità e pesantezza di argomenti – oggettivamente difficili da interpretare – che si lasciano raccontate con una retorica (lo ripeto) stancante e spesso priva di senso pratico, che non aiuta lo spettacolo, gli spettatori e men che meno la “causa”. Patrizio, come quei divi di Hollywood che sono eterni è esattamente il contrario.
Marcello Cotugno, mi racconta della genesi di uno spettacolo che diventa lo spaccato della vita quotidiana dell'interland napoletano.“Il progetto è nato da una collaborazione tra noi durata due anni. Prima era un corto da venti minuti, poi assieme lo abbiamo portato a termine lavorando tra drammaturgia e regia. Per un prodotto che andasse al di là del discorso camorra. Ho puntato sul lato umano, tra ciò che si è e ciò che si vuole essere. Le scelte di regia vanno in direzione di questo contrasto, questa dicotomia… Altra cosa importate è la contaminazione con la storia di Napoli, quella maschera è un misto tra pulcinella e l’eroe greco. Antonio Corbese di fatto è un eroe nero greco”.
La scelta delle scene, in questo spettacolo, crea salti temporali che delineano il profilo del protagonista facendogli prendere forma con calma. Sembra che ci sia stata una paziente scelta di circostanze e avvenimenti che mettessero in piedi una figura in lotta con se stessa. Il passaggio temporale da bambino ad adulto non ha alcuna forzatura. Ma ha l’energia di un impatto violentissimo che lo spettatore vive senza compromessi.
“Nella scena dell’università, per esempio, in cui il protagonista pesta il ragazzo vicino alla sua fidanzata usando la stessa violenza che lui ha subito da piccolo, quella che diventa quasi il suo battesimo, è esattamente la dimensione del personaggio che volevamo dare. Non c’è finzione in questo, le cose vanno cosi. In antitesi con lui da bambino, in cui la figura del padre è un punto di riferimento per la sua infanzia. Lontano dalla violenza. Ripeto, più che parlare di camorra ho fatto in modo che dalla regia uscisse fuori l’umanità dei personaggi”.
L’aspetto della religione è presente. Come in tutte le storie di mafia. Ma quello che esce fuori è la dimensione di una sottocultura che di religioso ha ben poco, fatta solo di quei simboli comuni a tutte le mafie. La scelta indovinata però, non sono immaginette bruciate e fasi di affiliazione abbastanza note, ma il momento del funerale dell’amico camorrista. È sempre Marcello Cotugno che spiega questa idea.
“Il momento della chiesa è importante. Si vede un personaggio molto religioso, completamente immerso nella cultura in cui è cresciuto che però con la religione non ha nulla a che fare. Infatti il suo vero Io gli esce fuori all’improvviso, con la rabbia che urla contro gli altri. Sono tutte parti di un copione che si potrebbe scrivere osservando qualsiasi famiglia camorrista. Per aspetti diversi è la stessa religiosità che mettono in mostra alcuni calciatori. Sono gesti che ti hanno insegnato in cui magari credi, ma l’indole e il tuo vero modo di essere è decisamente un altro”.
Commovente in alcuni tratti e soprattutto degno di una sceneggiatura hollywoodiana, in Patrizio c’è la storia di molti ragazzi che sono vissuti in un Sud sempre tristemente uguale a se stesso. Se cresci a Scampia o ai margini di una grande città come Reggio Calabria, Cosenza o Palermo, ti rendi conto che la storia del protagonista creato da Gianni Speranza potrebbe tranquillamente essere la tua.
Venendo da un piccolo paese di provincia in Calabria, non ho vissuto un’esperienza da ghetto come quella di Scampia, ma una delle cose che mi hanno riportato alla mia infanzia è la violenza e la crudeltà che la strada può generare in chi non riesce ad uscire al di fuori di quell’ambiente. Ed è così che i punti di riferimento diventano quasi sempre i “cattivi”, perché quella è la normalità.
“Il passaggio dell’età tra 11 e 12 anni, in cui piccole cose possono cambiare la tua vita, è quello che volevo raccontare – dice ancora l'autore – Il pestaggio di Patrizio è certamente un’esperienza che in posti come Scampia, direttamente o indirettamente, hanno vissuto in molti. Anche solo assistendo ad un litigio che poi finisce male. È la scelta fatta dopo, quella che poi distingue una realtà da un’altra. Il bisogno di essere presenti e di farti rispettare in un mondo duro che ragiona solo con altra violenza fa tutto il resto”.
Questo è quello che fa la differenza in questo spettacolo. La complicata e a volte ironica realtà dei modelli che, per imporsi, non hanno neanche bisogno di chissà quale impegno. Quando non hai scelta, la tua libertà è limitata. Ma questa è un’altra storia.
“Scrivendo la sceneggiatura ho pensato che quello, quell’età, è il momento in cui bisognerebbe fare qualcosa per poter uscire da una realtà complicata. Io sono dell’idea che non serve solo agire sui territori e fermarsi lì. Ma portare fuori i ragazzini per far loro vedere il mondo all’esterno di quello in cui vivono, dove i problemi e la vita di tutti i giorni sono un’altra cosa. Incontrare ragazzi di altre città con cui possano confrontarsi. Con un altro modello di socialità per poter scegliere davvero quello che si vuole diventare e non pensare che il mondo inizi e finisca a Scampia. Saranno loro poi a pretendere che il posto in cui vivono sia diverso e diventi diverso. Io sono cresciuto tra Marano e Mugnano, poco distante da Scampia. La prima volta che ho lasciato Napoli avevo 16 anni, a me è andata bene ma non è così per tutti”.
Non sono un critico teatrale, ma parlando con Gianni e Marcello pensavo che in questi anni ho visto molti spettacoli di questo genere. Patrizio è diverso però. Molto diverso. In 50 minuti c’è un climax narrativo che ti apre gli occhi senza pregiudizi e senza voler fare a tutti i costi “una lezione”. Lo spettacolo ti catapulta in un passato che ti riporta piccole scene vissute sulla tua pelle. Una rissa e un coltello uscito all’improvviso. O, peggio, qualcuno che pensa di volerti bene e dopo una banale discussione pensa di doverti venire a prendere, facendosi ben vedere da tutti perché tutti sappiano di chi sei amico. E mentre sali in macchina un po’ spaventato e un po’ contento e sicuro, l’amico ti mostra una pistola nascosta sotto il sedile dell’auto “che non si sa mai”. Ci sono momenti in cui una lite diventa altro, e questo “altro” è il passo che lo spettacolo di Gianni Spezzano ti mostra in tutta la sua tremenda verità.
Intensa la figura di un padre che vede il figlio crescere e morire. Esperienza sconcertante che l’autore mostra con gli occhi crudi del presente. L’oggi dei trentacinquenni che non hanno nulla perché i propri padri si sono accontentati di un benessere che non è stato più replicabile e che adesso vede una generazione di disoccupati a spasso, pronti a fare qualunque cosa pur di guadagnare qualcosa. E delinquere è la strada più semplice, forse l’unica.
“Mi piace molto la figura del padre di Patrizio. Volevo raccontare di chi oggi fa i conti con la propria coscienza di genitore che ha pensato che il benessere fosse solo il mutuo per avere una casa propria, senza dare la possibilità ad un figlio di crescere con una alternativa. Io sono di fatto senza lavoro, sono uno dei tanti che vive da precario il mondo dello spettacolo per le scelte sbagliate fatte negli anni '80 . La generazione prima della nostra si è accontentata del lavoro che gli hanno dato senza pensare al futuro e oggi noi ci troviamo in queste condizioni.”
Lo spettacolo merita di essere visto e di arrivare oltre i piccoli teatri italiani. Un racconto crudo e reale accompagnato da un’ironia che tiene alto il livello di attenzione. La scelta di far esprimere con un sorriso del pubblico un modello duro da accettare è un altro punto di forza delle scene. È una bella storia, che diventa un’opera intelligente e ben confezionata. La differenza la fa sempre il solito imprescindibile concetto di fondo: dipende da come la racconti.