In un’epoca come la nostra, che pone il virtuale, l’High Tech e le new technologies al centro dell’apprendimento e della formazione, i musei con la loro immediata fruizione, stanno ricevendo una nuova considerazione. Posso recarmi ad un museo, ammirare un ritratto di Antonello da Messina, ascoltare la registrazione di un esperto storico dell’arte e, in parte, mi informo, erudisco, sullo straordinario messaggio creativo di Antonello da Messina. Oppure per avvicinarci più al nostro tempo, recarmi in una sezione di un museo ed ammirare le foto dei soldati in trincea della prima Guerra mondiale. Lo stesso vale per le scolaresche. La famosa gita museale è ancora parte della formazione scolastica italiana, magari preceduta da letture informative, un video esplicativo o qualche testimonianza se si tratta di una vicenda storica più vicina a noi.
I musei, ovviamente, non sono solo per gli studenti, rappresentano anche l’identità di una città, di una nazione, di un’arte (pensiamo ai tanti musei della musica). I musei ci interrogano, ci pongono al centro della fruizione artistica, ci dicono chi eravamo e chi siamo. Pochi musei come il Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana (sito presso il Complesso Monumentale del Vittoriano, Sala Gipsoteca Piazza dell'Ara Coeli 1, Roma), definiscono il tratto identitario del nostro Paese. Un popolo di emigranti, di artisti e santi.
In Italia negli ultimi anni, si è ridotto molto lo studio dell’arte nelle scuole, scelta sbagliata, la religione e le vite dei santi, sono sempre meno al centro della vita degli Italiani, l’emigrazione ora ce la troviamo in casa.

L’interno del MEI
Il Paese è divenuto l’approdo di quanti via mare dall’Africa sognano l’opulenta Europa, cacciati da guerre civili o carestie dai loro paesi di origine. L’emigrazione sarà l’istanza politica, che terrà impegnati i politici dell’Unione Europea per almeno i prossimi dieci anni. Intanto in Italia il problema integrazione e gestione dell’emigrazione cresce. E’ stato persino creato un ministero ad hoc, affidato alla ministra Cecile Kyenge, essa stessa immigrata dal Congo. Sul tema ritorneremo presto.
Parliamo ora del Museo dell’Emigrazione Italiana. Un museo straordinario. Testimonianza di una crescita civile ed economica di un Paese che si affaccia al Novecento come tra i più poveri dell’Occidente, e lo conclude tra i primi otto. Risultato ottenuto, non solo attraverso la grande capacità creativa ed imprenditoriale italiana, ma anche attarverso l’esportazione di braccia (e di cervelli) con un enorme flusso di rimesse economiche. Laddove l’Italia non ha avuto una politica imperialista (escluse le avventure militari del fascismo), le colonie italiane all’estero hanno costituito degli avamposti economici, culturali e sociali che hanno avuto un peso politico ed economico considerevole nei paesi dove l’emigrazione italiana è stata più sostenuta. Alla luce di questi risultati gli studi sull’emigrazione italiana nel mondo vanno considerati, ma soprattutto a partire dalla loro tangibile storicità.
Il Museo dell’Emigrazione Italiana in questo, apre scenari culturali e riflessioni umanitarie che possono contribuire a consolidare l’identità italiana e a ridefinirne la sua globalità. Visitarlo, significa iniziare una storia interiore delle nostre regioni, città, famiglie, capire la determinazione e tante volte le discriminazioni subite dai nostri connazionali. Uno dei padri della sociologia classica, Georg Simmel definì emigrati e stranieri, al pari degli ebrei e degli eretici, i precursori del capitalismo. Persone animate da una vitalità superiore, che Weber definiva come l’agire razionale. Ecco l’emigrazione non è stata solo dolore ma anche una grandissima opportunità di crescita economica per gli individui, le famiglie e le nazioni. E’ questa la testimonianza, la narrative, che il Museo Nazionale dell’Emigrazione ci esorta a considerare. Visitiamolo.